Abuso del diritto e clausole generali in una prospettiva multidisciplinare
Abstract
La clausola della buona fede è stata oggetto di un intenso dibattito dottrinale che ha messo in
evidenza le sue molteplici funzioni: criterio di valutazione delle condotte dedotte nel contratto,
strumento per individuare condotte ulteriori ed esigibili nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, fonte
di obblighi a carattere protezionistico. In tal senso la buona fede presenta un diretto collegamento
con l’art. 2 Cost. e con il valore della solidarietà di cui tale norma è espressione. Esso rappresenta
nel nostro ordinamento un modo grazie al quale è possibile effettuare il controllo delle
sopravvenienze contrattuali, soprattutto nei rapporti di durata, nonché gestire la fase esecutiva di
essi laddove nascano “naturalmente” squilibrati. E’ questo il caso del contratto di lavoro
subordinato. Il fondamento della debolezza del lavoratore è ricollegabile, da una parte allo
squilibrio del mondo del lavoro e al coinvolgimento personale di esso, dall’altra alla conformazione
del rapporto di lavoro in base alla quale il datore esercita poteri discrezionali sindacabili da parte del
giudice attraverso il filtro delle clausole generali. L’utilizzo di quest’ultime in chiave valutativa dei
poteri datoriali, tuttavia, ha faticato a trovare piena legittimazione nel diritto del lavoro in virtù della
presenza dell’ art. 41 Cost. che, sancendo la libertà di iniziativa economica privata, sembrerebbe
non lasciare spazio ad una sindacabilità delle scelte imprenditoriali se non nei limiti della “non
contraddizione” e della “imparzialità” delle stesse. Sotto la vigenza del regime corporativo, infatti,
essendo l’attività produttiva orientata al perseguimento di una finalità pubblica, i poteri datoriali
erano giustificati solo in vista di tale scopo mentre l’interesse del prestatore era tutelato in modo
residuale e “occasionalmente protetto”. In seguito si accede all’idea che non vi sia una
subordinazione della posizione del singolo lavoratore a quella imprenditoriale derivante dall’essere
quest’ultima finalizzata al perseguimento del superiore interesse della produzione nazionale. La
dottrina, pertanto, elabora il criterio dello sviamento della funzione causale dell’atto in base al quale
si invalidano le manifestazioni di volontà che si allontanino da questa. Il limite di tale ricostruzione,
tuttavia, è da individuare nel riconoscimento della libertà delle scelte imprenditoriali che implica
l’assenza di un obbligo di comportarsi da buon imprenditore. Attualmente la tecnica maggiormente
usata dalla giurisprudenza in tema di sindacato sulla legittimità delle scelte imprenditoriali, è quella
dell’ ”abuso del diritto” che si ha nell’ipotesi in cui un diritto venga ad essere apparentemente
esercitato entro la “cornice normativa” che lo riconosce ma per finalità estranee a quelle per le quali
è stato attribuito dal legislatore. Nella valutazione dell’ abusivismo della condotta, ruolo cardine è
svolto proprio dalle clausole di correttezza e buona fede che svolgono una funzione di chiusura del
sistema orientando i privati a perseguire il valore della solidarietà anche nell’esercizio della libertà
contrattuale. Recentemente, infatti, la giurisprudenza ha avuto modo di affrontare la problematica
dell’abuso nel noto “caso Renault” (Cass. Civ. 18 settembre 2009 n. 20106). In questa occasione si
è precisato che ogni diritto non è completamente libero nel suo esercizio soggiacendo a due limiti:
uno di carattere causale, secondo il quale l’esercizio dello stesso non deve essere contrario alla
ragione per la quale il legislatore ne ha riconosciuto la titolarità, l’altro, di natura modale, che
impone di esercitare il diritto arrecando il minor sacrificio possibile agli interessi della controparte.
Partendo da questa pronunzia si è estesa la riflessione al campo del diritto del lavoro dedicando
particolare attenzione all’istituto del mobbing, nonché allo straining, oggetto di un recentissima
sentenza della Cassazione (n.28603/2013). Si è analizzata, in particolare, la possibilità (in assenza
di una tutela penalistica ad hoc e stante la dibattuta sussumibilità nell’art. 572 c.p.) di stigmatizzare
le condotte datoriali sotto il profilo dell’abuso con riguardo ai profili di responsabilità datoriale
nelle ipotesi di mobbing sia verticale che orizzontale. La tematica dell’abuso, inoltre, ha ricevuto
nuova linfa a seguito di un intervento normativo (art. 30 l. n. 183/2010). Tale disposizione reca con
sé il rischio di una eccessiva ingerenza del giudice in valutazioni di pertinenza esclusiva
dell’imprenditore, fenomeno a cui si è ovviato sancendo il divieto di controllo giudiziale sul merito
e sull’opportunità delle decisioni tecniche, organizzative e produttive del datore lasciando
all’operatore del diritto il delicato compito di far sì che la libertà di iniziativa economica non si
svolga in contrasto con l’utilità sociale e non arrechi danno alla dignità umana del lavoratore. [a cura dell'autore]