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dc.contributor.authorDi Stasi, Sibilla
dc.date.accessioned2014-07-09T09:39:32Z
dc.date.available2014-07-09T09:39:32Z
dc.date.issued2014-06-17
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/10556/1472
dc.identifier.urihttp://dx.doi.org/10.14273/unisa-315
dc.description2012-2013en_US
dc.description.abstractLa clausola della buona fede è stata oggetto di un intenso dibattito dottrinale che ha messo in evidenza le sue molteplici funzioni: criterio di valutazione delle condotte dedotte nel contratto, strumento per individuare condotte ulteriori ed esigibili nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, fonte di obblighi a carattere protezionistico. In tal senso la buona fede presenta un diretto collegamento con l’art. 2 Cost. e con il valore della solidarietà di cui tale norma è espressione. Esso rappresenta nel nostro ordinamento un modo grazie al quale è possibile effettuare il controllo delle sopravvenienze contrattuali, soprattutto nei rapporti di durata, nonché gestire la fase esecutiva di essi laddove nascano “naturalmente” squilibrati. E’ questo il caso del contratto di lavoro subordinato. Il fondamento della debolezza del lavoratore è ricollegabile, da una parte allo squilibrio del mondo del lavoro e al coinvolgimento personale di esso, dall’altra alla conformazione del rapporto di lavoro in base alla quale il datore esercita poteri discrezionali sindacabili da parte del giudice attraverso il filtro delle clausole generali. L’utilizzo di quest’ultime in chiave valutativa dei poteri datoriali, tuttavia, ha faticato a trovare piena legittimazione nel diritto del lavoro in virtù della presenza dell’ art. 41 Cost. che, sancendo la libertà di iniziativa economica privata, sembrerebbe non lasciare spazio ad una sindacabilità delle scelte imprenditoriali se non nei limiti della “non contraddizione” e della “imparzialità” delle stesse. Sotto la vigenza del regime corporativo, infatti, essendo l’attività produttiva orientata al perseguimento di una finalità pubblica, i poteri datoriali erano giustificati solo in vista di tale scopo mentre l’interesse del prestatore era tutelato in modo residuale e “occasionalmente protetto”. In seguito si accede all’idea che non vi sia una subordinazione della posizione del singolo lavoratore a quella imprenditoriale derivante dall’essere quest’ultima finalizzata al perseguimento del superiore interesse della produzione nazionale. La dottrina, pertanto, elabora il criterio dello sviamento della funzione causale dell’atto in base al quale si invalidano le manifestazioni di volontà che si allontanino da questa. Il limite di tale ricostruzione, tuttavia, è da individuare nel riconoscimento della libertà delle scelte imprenditoriali che implica l’assenza di un obbligo di comportarsi da buon imprenditore. Attualmente la tecnica maggiormente usata dalla giurisprudenza in tema di sindacato sulla legittimità delle scelte imprenditoriali, è quella dell’ ”abuso del diritto” che si ha nell’ipotesi in cui un diritto venga ad essere apparentemente esercitato entro la “cornice normativa” che lo riconosce ma per finalità estranee a quelle per le quali è stato attribuito dal legislatore. Nella valutazione dell’ abusivismo della condotta, ruolo cardine è svolto proprio dalle clausole di correttezza e buona fede che svolgono una funzione di chiusura del sistema orientando i privati a perseguire il valore della solidarietà anche nell’esercizio della libertà contrattuale. Recentemente, infatti, la giurisprudenza ha avuto modo di affrontare la problematica dell’abuso nel noto “caso Renault” (Cass. Civ. 18 settembre 2009 n. 20106). In questa occasione si è precisato che ogni diritto non è completamente libero nel suo esercizio soggiacendo a due limiti: uno di carattere causale, secondo il quale l’esercizio dello stesso non deve essere contrario alla ragione per la quale il legislatore ne ha riconosciuto la titolarità, l’altro, di natura modale, che impone di esercitare il diritto arrecando il minor sacrificio possibile agli interessi della controparte. Partendo da questa pronunzia si è estesa la riflessione al campo del diritto del lavoro dedicando particolare attenzione all’istituto del mobbing, nonché allo straining, oggetto di un recentissima sentenza della Cassazione (n.28603/2013). Si è analizzata, in particolare, la possibilità (in assenza di una tutela penalistica ad hoc e stante la dibattuta sussumibilità nell’art. 572 c.p.) di stigmatizzare le condotte datoriali sotto il profilo dell’abuso con riguardo ai profili di responsabilità datoriale nelle ipotesi di mobbing sia verticale che orizzontale. La tematica dell’abuso, inoltre, ha ricevuto nuova linfa a seguito di un intervento normativo (art. 30 l. n. 183/2010). Tale disposizione reca con sé il rischio di una eccessiva ingerenza del giudice in valutazioni di pertinenza esclusiva dell’imprenditore, fenomeno a cui si è ovviato sancendo il divieto di controllo giudiziale sul merito e sull’opportunità delle decisioni tecniche, organizzative e produttive del datore lasciando all’operatore del diritto il delicato compito di far sì che la libertà di iniziativa economica non si svolga in contrasto con l’utilità sociale e non arrechi danno alla dignità umana del lavoratore. [a cura dell'autore]en_US
dc.language.isoiten_US
dc.publisherUniversita degli studi di Salernoen_US
dc.subjectClausolaen_US
dc.subjectAbusoen_US
dc.subjectMobbingen_US
dc.titleAbuso del diritto e clausole generali in una prospettiva multidisciplinareen_US
dc.typeDoctoral Thesisen_US
dc.subject.miurIUS/07 DIRITTO DEL LAVOROen_US
dc.contributor.coordinatoreLuciani, Vincenzoen_US
dc.description.cicloXII n.s.en_US
dc.contributor.tutorLuciani, Vincenzoen_US
dc.identifier.DipartimentoScienze Economiche e Statisticheen_US
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