dc.description.abstract | Molti sono i testi critici che hanno dedicato attenzione a quel particolare settore della letteratura di consumo che va sotto il nome di “rosa”. Troppo spesso bistrattato, il romanzo femminile per eccellenza ha dovuto a lungo combattere un virulento disprezzo sociale che ne ha impedito un’analisi scevra di pregiudizi negativi, basati su una sua presunta appartenenza ad un sottogenere specificamente riguardante donne di scarsa cultura o, al meglio, ingenue. E d’altronde, se un limite va riconosciuto al romanzo rosa, questo sta proprio nell’inflessibile settorialità della fruizione: il rosa, cioè, unito in questo non casualmente alla letteratura per l’infanzia, si definisce non attraverso una vocazione di lettura, ma per mezzo di dati anagrafici come età e sesso. Grande attenzione è stata rivolta alla “nobile schiera” di narratrici femministe ottocentesche che provarono, molto spesso riuscendoci, a tracciare il triste profilo della vita cittadina delle donne, all’indomani dell’Unità d’Italia. Imprescindibile prodromo, questa letteratura educativa, agli esiti dei primi decenni del XX secolo, che vira verso un estetismo a volte fine a sè stesso, e pure comprende una larvata meditazione sulla condizione femminile, a questo punto estesa a tutti i gangli della società italiana. È proprio a questo punto, nel momento in cui il romanzo femminile sembrava aver imboccato una strada senza via d’uscita, costellata di viveur cinici e donne fatali, figurine monodimensionali buone per ogni occasione, che si assiste all’avvento di una giovane scrittrice capace veramente di “scombiccherare” le carte: Liala, appunto...[a cura dell'autore] | en_US |