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dc.contributor.authorCavaliere, Anna
dc.date.accessioned2011-11-10T12:34:54Z
dc.date.available2011-11-10T12:34:54Z
dc.date.issued2011-03-23
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/10556/180
dc.description2009 - 2010en_US
dc.description.abstractIl lavoro dei concetti - Occuparsi del tema della secolarizzazione significa tentare l’analisi di un concetto filosofico. I concetti, come avverte la Begriffsgeschichte, sono vocaboli dal destino particolare: nascono in determinati contesti storici, ne subiscono le vicende, vengono usati, strumentalizzati, abusati, e, qualche volta, smarriscono il loro significato originale, “rimangono senza padrone” (1), per dirla con le parole di Lübbe. Nella teoresi filosofica, i concetti sono utili per restituire un’immagine della realtà, ma questa immagine è continuamente condizionata da chi il concetto lo utilizza . Quello che Hegel chiama «il lavoro del concetto» (2) è precipuamente l’impegno continuo del filosofo di adeguare i concetti in funzione della realtà che muta, e del quadro di riferimento costruito dalla prassi filosofica: è la realizzazione di un moto dialettico che si situa nell’interazione tra la teoria e la prassi. I concetti dovrebbero essere, quindi, nella ricerca filosofica, il simbolo di un modo di approcciarsi alle cose scientifico, distaccato, devoto unicamente all’acquisizione della conoscenza. La filosofia però (3), non è sempre aliena da condizionamenti ideologici, politici, personali. Nel gioco dialettico tra teoria e prassi in cui si trova il concetto può accadere che la prassi prevalga, e la filosofia diventi “politica delle idee” (4): non solo nel modo più brutale, cioè quando essa è asservita ad un potere piuttosto che ad un’altro, e il filosofo dimentica i doveri che Max Weber attribuisce all’ “intellettuale di professione”, ma anche in maniera più soft, ma non per questo priva di conseguenze, quando una posizione filosofica smetta di essere una posizione scientifica, per diventare un ideale, una fede. In questo caso la ricerca filosofica diviene mero terreno di battaglia politica e i concetti diventano le “parole d’ordine” (5) dei vari schieramenti. Il concetto di secolarizzazione è complesso perché ha vissuto tutte queste vicende: ha lavorato come concetto, muovendosi nelle pieghe dialettiche dello sviluppo storico, ed è stato talvolta travolto dalle vicende della storia, rimanendovi ingabbiato. ‘Secolarizzazione’ come metafora - Il termine secolarizzazione, originariamente, veniva utilizzato nel linguaggio giuridico per indicare la sottrazione di un bene, una proprietà, o addirittura un soggetto al controllo ecclesiastico. Le fonti documentano l’utilizzo di questo termine, per la prima volta, dal legato francese Longueville, durante le trattative della pace di Westfalia, per indicare la liquidazione dei beni ecclesiastici. In un’accezione non dissimile, lo ritroviamo nel Codex Juris Canonici, per indicare il ritorno di un soggetto appartenente alla comunità monastica, allo stato di laico (6). Il termine quindi non aveva, originariamente, alcuna connotazione negativa, descriveva anzi situazioni spesso poste in essere volontariamente dalla Chiesa: la secolarizzazione di taluni beni ecclesiastici permise, ad esempio, la fondazione delle Università (7). Soltanto dopo la deputazione imperiale del 1803, e l’ingente appropriazione dei beni della Chiesa da parte di Napoleone, la parola “secolarizzazione” divenne sinonimo, negli ambienti ecclesiastici, di usurpazione, illegittima emancipazione dal controllo della Chiesa. Nella Kulturkampf della seconda metà del XIX secolo quella usurpazione spaccò gli intellettuali in due grossi partiti: coloro che la biasimavano, appoggiando le vittime di quella colossare rapina, e coloro che, pur non elogiando le gesta delle truppe napoleoniche, consideravano la secolarizzazione giustificata alla luce di un più alto destino di progresso poltico - costituzionale (8). Ci volle più di un secolo per ridurre la distanza tra queste due opposte posizioni e condurre i detrattori della secolarizzazione a ritenere che, tutto sommato, quella vicenda storica poteva aver giovato alla Chiesa Cattolica, regalandole la possibilità di concentrarsi su vicende più propriamente spirituali, e i liberali, i quali riconobbero che la secolarizzazione, oltre ad avere dei grossi meriti, era stata altresì la causa della distruzione di grosse opere culturali. La storia del termine secolarizzazione, nel suo significato più propriamente tecnico giuridico, può sommariamente riassumersi in questo modo. Il senso filosofico giuridico del termine, si avvicina soltanto lontanamente a questo remoto significato, ed in maniera metaforica, come afferma Marramao. In questo lavoro, sarà nostro intento quello di occuparci delle secolarizzazione, intesa come categoria filosofico- giuridica. Il punto di partenza della nostra riflessione è rappresentato dai testi del filosofo e giurista tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde, il quale, con i suoi scritti, ha fornito un contribuito notevole al dibattito sul tema ed ha consentito di inquadrare il fenomeno della secolarizzazione nel panorama che gli è proprio: lo Stato Moderno. Poiché, come si evince dalla produzione teorica del giurista tedesco, parlare della secolarizzazione vuol dire parlare della modernità, del suo peculiare orizzonte di senso, delle sue contraddizioni. Ciò non costituisce un rifugio sicuro per la riflessione teorica, poiché la nozione stessa di modernità è complessa. Cosa è il moderno? È difficile fornire una definizione senza cadere nella trappola della auto rappresentazione del moderno. Se non ci si vuole accontentare di una definizione meramente in negativo – non è moderno il medioevo, non è moderna l’età greco-romana, non è moderno, come taluni sostengono, l’attuale realtà geopolitica (9) - è opportuno soffermarsi sul dato per cui gli ordinamenti giuridici moderni sono caratterizzati dal tentativo di costruire un ordine umano, postsostanziale, oltre la trascendenza. Nel primo Capitolo di questo lavoro, analizzeremo il motivo per cui, per Böckenförde, la modernità non ‘irrompe’ nel Cristianesimo, ma quest’ultimo la influenza sin dai primordi, sin dalla lotta per le Investiture. Böckenförde, come Joseph Strayer - autore assai diverso per impianto teorico – mette in evidenza come, tra gli altri, sia stata proprio la Chiesa, col suo lavoro di istituzionalizzazione del potere, ad anticipare le strutture dello Stato moderno (10). La centralizzazione del potere, e la conseguente burocratizzazione delle strutture amministrative, l’idea di un diritto limitato e razionale, sono tutti concetti ereditati dall’ambito ecclesiastico. Gli stessi valori della religione cristiana rappresentano una componente essenziale dell’odierno Stato liberaldemocratico, il quale si fonda essenzialmente su due principi: La libertà e l’uguaglianza (11). Il Leviatano di Thomas Hobbes è l’emblema di tali ordinamenti: una costruzione artificiale, razionale, secolarizzata, che nasce quando «gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano – ciascuno singolarmente con ciascun altro - che qualunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di tutti loro ( cioè a dire di essere il loro rappresentante) , ognuno – che abbia votato a favore o che lo abbia votato contro – autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini alla stessa maniera che se fossero propri, affinchè possano vivere in pace tra di loro ed essere protetti contro gli altri uomini» (12). L’ordine moderno si presenta come giuridificato, funzionante meccanicamente, e sussistente in virtù di regole costitutive e performative: come sottolinea Norberto Bobbio, è il governo della legge e non il governo degli uomini, o, per usare le parole di Carl Schmitt, « il positivo diviene l’ultimo fondamento di validità» (13). Come vedremo nel corso del secondo Capitolo, il modello del ‘patto’ rappresenta la narrazione rassicurante della giustificazione del potere moderno: l’adesione del singolo individuo, il quale abbandona lo stato di natura per aderire al patto e sottomettersi al potere politico è avvertita già in Hobbes come esigenza della ragione che si genera dalla conflittualità naturale (14). Quella stessa conflittualità ‘geneticamente’ umana, che rende lo stato di natura un bellum omnium contra omnes, rivela una carica irresistibile di produttività politica, un’intrinseca ‘vocazione razionale’ a condurre gli individui verso l’adesione al patto sociale. L’antropologia terribilmente realista, ma al contempo speranzosa di Hobbes - perché confida nella ragione, nella possibilità di un auto-trascendimento della natura in artificio - in tal modo si rileva la più efficace teorizzazione del potere politico moderno ,per la sua radicalità, ma anche la più problematica: lo mette in evidenza chiaramente Carl Schmitt, il quale sottolinea che «nel ragionamento hobbesiano, altrimenti così sicuro, è insita un’indecisione proprio nel punto giuridicamente decisivo, e cioè nella giustificazione giuridica dello Stato a partire da un patto stipulato tra individui» (15). Al contempo, la convinzione hobbesiana della possibilità di una sintesi tra le istanze dei consociati che non solo aderiscono al patto sociale ma generano l’unità politica va ben al di là del nesso protezione – obbedienza. Essa implica la convinzione che il patto fondi l’ unità politica, e che il sovrano non si limiti a difendere i consociati, ma li ‘rappresenti’ , laddove la rappresentanza assume un valore metalegale, ‘esistenziale’ (16), generando il corpo sociale, trasformando un gruppo di individui in un popolo. Il potere politico moderno si ritrova allora continuamente a fare i conti con la sua origine spuria, problematica, di conflitto e con la perenne ricerca dell’adeguatezza nel ‘rappresentare’ il corpo sociale. Le due difficoltà sono facce della stessa medaglia, evidenziano come il destino del moderno sia tentare di esorcizzare, giuridificandolo, il ‘politico’ con la politica, per parafrasare la formula di Carl Schmitt. Nel far questo, esso non si occupa di ‘ cose politiche’ per natura: rientra in questa sfera tutto ciò che evidenzia un elevato grado di intensità di associazione e dissociazione, tutto ciò per cui un individuo può riconoscere un amico e un nemico (17). È politico ciò che è suscettibile di creare conflitto, muta nel tempo, e il potere moderno deve districarsi in questo equilibrio instabile di neutralizzazione e ripoliticizzazione del conflitto: in questa attività complessa la posta in gioco è la capacità di ’rappresentare’. Come sottolinea Severino (18) è un destino di angoscia, quindi, perché non lascia altra strada che quella di confidare nella ‘tecnica’ politica, giammai nelle questioni di ‘veritas’. Come vedremo nel corso del terzo capitolo, attraverso il confronto del pensiero di Böckenförde con quanto affermato da Habermas e Taylor, negli ultimi anni, nello Stato liberale e democratico, questa precarietà congenita del moderno assume toni più marcati: la dialettica parlamentare evidenzia le istanze diverse provenienti dal corpo sociale, ed il parlamento appare al contempo un centro di mediazioni di interessi precario ed inadeguato. Lo Stato liberaldemocratico che, secondo l’espressione di Habermas, rappresenta la forma più compiuta di Stato Moderno (19), svela, accentuandole, tutte le contraddizioni della modernità, al punto di apparire continuamente ad un punto di non ritorno: Carl Schmitt, commenta l’avvento del liberalismo politico in questo modo: «Il Leviatano come «magnus homo», come sovrana personificazione dello Stato in forma divina, è stato distrutto dall’interno nel XVIII secolo». La produzione teorica di Böckenförde fornisce un quadro di lettura molto esauriente delle complessità della costruzione statale moderna. il giurista tedesco è, come sottolinea Preterossi, è «un costituzionalista che, nel solco della tradizione tedesca, è anche un teorico della politica,un filosofo del diritto, uno storico della cultura giuridica e delle istituzioni giuridiche» (20). Questa sua poliedricità gli permette di fornire una lettura della modernità da diverse angolazioni. Sin dai suoi primi scritti, egli compie un raffinato lavoro di ricostruzione storica e di recupero dei concetti, attraverso le letture dei testi di autori ‘classici’ della modernità: Hobbes, Hegel, Schmitt e Lorenz Von Stein in primis, ma anche storici come Mirgeler e Brunner. Vi è un filo rosso che attraversa la produzione teorica tanto del Böckenförde filosofo, quanto del giudice costituzionale e del pensatore pubblico: l’attenzione riservata ai meccanismi che permettono alla colossale struttura del Leviatano di funzionare, rappresentando il corpo sociale, quando esso incarna i valori liberali. Di qui il dictum che ha reso il giurista così conosciuto anche in Italia: « lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire» e il giurista continua così - è opportuno precisarlo per smentire sin dall’inizio una possibile lettura ‘reazionaria’ dell’autore tedesco «Questo è il grande rischio che per amore della libertà lo Stato deve affrontare» (21). Nella dinamica di neutralizzazione e politicizzazione del conflitto Böckenförde inserisce un oggetto non spendibile: i valori sui quali si fonda lo Stato liberale. Sono valori che lo Stato non può produrre poiché è neutrale, eppure essi legittimano in tanta parte il potere costituito. L’opaco nucleo decisionista della politica, che nella teorizzazione Schmittiana è assolutamente affidato alla contingenza, alla decisione del sovrano, viene plasmato da Böckenförde proprio attraverso quell’insieme di valori presupposti dallo Stato liberale. Schmitt rinuncia a rispondere alle sfide proposte dal pluralismo degli ordinamenti politici novecenteschi, arroccandosi sull’idea di unità politica in termini preweimariani, egli afferma: «uno stato pluralista di partiti diviene uno stato totale non per vigore e efficacia ma per debolezza: interviene in tutti i campi della vita perché ci si attende da lui che assolva le rivendicazioni di tutti gli interessati» (22). Böckenförde, che utilizza lo strumentario concettuale schmittiano, – il politico è presente e determinante nella vita dello Stato – lo ribalta: non solo i valori democratici non erodono i fondamenti dello Stato, ma addirittura lo legittimano, forniscono mehrwert politico: Böckenförde tenta in questo modo di fornire una soluzione alla questione posta ma non risolta da Carl Schmitt, il dilemma del cristallo di Hobbes (23). La questione problematica è dove lo Stato liberale attinga quei valori che gli attribuiscono ninfa vitale. Il giurista tedesco esprime un’idea che era già stata di Max Weber, per cui la genesi dello Stato Moderno in Europa non sia un dato casuale, e che l’influenza dell’elemento religioso sia assolutamente determinante. Nello Stato liberaldemocratico tutto può essere messo in discussione, tutto può essere sottoposto alla prova del ‘politico’, tranne i due principi suddetti, perché questo minerebbe ‘concettualmente’ - prima che nella prassi politica - la possibilità di ‘scelte democratiche’ (24). Partendo da questo assunto, l’intera produzione teorica dell’autore, dalla tesi di dottorato in filosofia (25), agli scritti più recenti in materia economica e bioetica, appare caratterizzata dal tentativo di indagare genealogicamente il tracciato della libertà e dell’autonomia dei soggetti nella modernità, il che vuol dire verificare quanto vi sia di vero in quella che abbiamo definito la ‘narrazione rassicurante’ del patto, quanto ‘valgano’ i soggetti, le scelte poste in essere da questi ultimi, e quindi i contenuti politici che filtrano attraverso le procedure dello Stato Moderno. La Libertà moderna si riscopre come erede diretta della libertà germanica, le cui origini si trovano sin nella Germania di Tacito, la stessa rivendicata dagli umanisti tedeschi durante il XV secolo contro le pretese imperiali, la quale veniva presentata dai germanisti come il vero elemento caratterizzante della storia del popolo tedesco. Böckenförde sembra suggerire che il suo cammino per la piena attuazione sia quello che conduce allo Stato Moderno : « ‘ Il carattere fondamentale del diritto Statale comunitario tedesco è la libertà tedesca’ si legge nello Staatslexicon di Rotteck-Welcker. A questo punto si può parlare, con E. Hölze, di un vero e proprio cammino verso la libertà moderna accanto al diritto naturale: del cammino della libertà storica» (26). La libertà comunitaria germanica, quindi, diviene la libertà individuale, l’autonomia del soggetto moderno. Tutto ciò non senza la mediazione del pensiero cristiano. Questa idea emerge dai testi del giurista tedesco, e rimanda inevitabilmente alla riflessione di Hegel, perché, come ha scritto Viano, «Nelle mani di Hegel il tema della libertà, come caratteristica dell’età moderna, diventava centrale: il mondo moderno è il mondo della libertà quale diritto proprio di ogni uomo, ma anche come interiorità. Il germanesimo forniva il modello della società dei liberi, mentre il protestantesimo dava la dimensione dell’interiorità» (27). Se è così, se la vera matrice dell’ordinamento liberal democratico è in qualche modo riconducibile al messaggio cristiano, allora come si può definire il rapporto tra lo Stato e i contenuti ‘religiosi’? Come si può definire la teologia politica? Nella disputa a distanza tra due colossi del Novecento, Carl Schmitt e Hans Blumenberg, svoltasi tra le pagine della Teologia politica I e Teologia politica II di Schmitt, La legittimità dell’età moderna di Blumenberg ed il carteggio durato dal 1971 al 1978, Böckenförde può decisamente offrire un contributo ‘postumo’, prospettando qualle che, nel paragrafo conclusivo di questo lavoro abbiamo definito «un nuovo tipo di teologia politica». Lungi dal proporre nostalgicamente l’idea della possibile convergenza tra un presunto diritto naturale e il diritto positivo, che anzi lo trova profondamente scettico, il filosofo suggerisce una sorta di ‘terza via’. Egli, pur mettendo in discussione quell’assoluta ‘autonomia del moderno’ che riscontriamo negli scritti di Blumenberg, e dimostrandosi consapevole della rischiosità del ‘politico’ , della sua capacità di espandersi, investendo campi non ‘canonici’ ( la vita privata, la psiche del soggetto, le convinzioni degli individui), tuttavia supera la visione schmittiana che aveva opposto alla teoria di Blumenberg la autotrascendenza del moderno che rappresenta se stesso. Böckenförde prende in seria considerazione l’idea di una modernità proto moderna (28), pure suggerita da Schmitt, e la analizza compiutamente. L’impegno del giurista tedesco è sempre duplice, complice la sua attività di giurista ‘pratico’, di giudice costituzionale , ed al contempo di teorico e filosofo del diritto: analizzare da vicino i problemi che si trova ad affrontare lo Stato liberale, ed operare una riflessione teorica radicale, lavorando sui concetti. Molte delle questioni che hanno interessato le alte Corti tedesche nell’ultimo cinquantennio sono prese in esame dal giurista per fornire una chiave di interpretazione dei meccanismi che governano lo Stato Moderno. Si tratta dei meccanismi democratici che, per essere presi sul serio, per garantire «la democrazia come principio costituzionale» (29) devono assicurare l’autonomia dell’individuo, ma anche di meccanismi sotterranei, che attribuiscono al potere politico la legittimità al di fuori del mero circuito della legalità. Si pensi ai soggetti che, pur non essendo legittimati democraticamente, hanno potere decisionali nello Stato: il giurista cita i grandi investitori, oppure i sindacati (30). E si pensi alle agenzie di senso presenti nella società civile: le religioni, in primis, perché maggiormente plasmano le opinioni, creano consensi, aggregazione, sensi di identità, insomma, maneggiano il ‘politico’. Si possono allora depoliticizzare le religioni? Böckenförde, in particolare se lo chiede per la religione cattolica. E la sua risposta è “ La depoliticizzazione della Chiesa (…) sarebbe soltanto apparente, perché si limiterebbe a occultare il fatto che la Chiesa prenda sempre posizione in politica” (31). Una presunta neutralità politica areligiosa, apartitica, amorale è una specie di chimera a cui neanche il più radicale dei positivisti può aver mai seriamente creduto. (1) H. Lübbe, La secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, tr. it. di P. Pioppi, il Mulino 1965, pag. 11 (2) G. W. F. Hegel, Filosofia dello Spirito, tr. it. di E. De Negri, La nuova Italia, Firenze, pag. 57 (3) H. Lübbe, La Secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, cit.; M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. a cura di D. Cantimori, A. Giolitti, Einaudi, Torino 1985. (4) H. Lübbe, La secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, cit., pag. 17. (5) Ibidem, (6) H. Lübbe, Potere e secolarizzazione, cit., pag. 26, M. Stallman, Was ist Säkularisierung?, J. C. B. Mohr, Tubingen 1960, pagg. 5 ss. (7) I. S. J. Fucek, Il peccato oggi, tr. it. a cura di G. Pelland, E. P. U. G. , Roma 1996. (8) F. Trocini, Tra Realpolitik e deutsche Freiheit: il bonapartismo francese nelle riflessioni di August Ludwig von Rochau e di Heinrich von Treitschke, in “Rivista Storica Italiana”, N. CXXI, I, Aprile 2009, pagg. 338-387. (9) Illuminante, a tal proposito, appare la riflessione di C. Pasquinelli, Alla ricerca del moderno; C. A. Vico, I paradigmi della modernità, in B. Accarino, P. Barcellona, U. Curi, O. De Leonardis, G. Doppelt, L. Ferrajoli, F. Ferrucci, C. Pasquinelli, P. Pinzauti, P. Schiera, C. A. Viano, R. Wolin, Problemi del Socialismo/5, Sulla Modernità, Franco Angeli, Milano 1986. (10) J. Strayer, Le origini dello Stato Moderno, tr. it. a cura di A. Porro, Celuc, Milano 1975. (11) E. W. Böckenförde, L’ethos della democrazia moderna e la Chiesa, in Id. Cristianesimo, libertà, democrazia, tr. it. a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2008 (12)T. Hobbes, Leviatano, tr. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 2010, pag. 145. (13) L’espressione di Emge è riportata in. C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, tr. it. a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano1986, pag. 57. (14) C. Galli, Contingenza e necessità, Laterza, Roma-Bari 2009, pag. 47. (15) C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, cit., pag. 54. (16) Il termine è utilizzato in C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, tr. it. a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, pag. 27. (17) Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, tr. it. a cura di P. Schiera, Il mulino, Bologna 1998. (18) E. Severino, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978. (19) J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, tr. it. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna 1986. (20) E. W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, tr. it. a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma- Bari 2007. (21) E. W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, cit., p. 53. (22) L’espressione di Carl Schmitt è riportata, nonché accuratamente commentata da J. Freund, Les lignes de force de la pensée politique de Carl Schmitt, in “NouvelleEcole”, anno 19, n. 44, Aprile 1987. (23) C. Schmitt, Il cristallo di Hobbes, da Il concetto di politico in Id., Scritti su Thomas Hobbes, cit. (24) La posizione assunta da Böckenförde presenta, come vedremo, dei profili di somiglianza con quanto affermato in J. Habermas, L’inclusione dell’altro, tr. it. di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli 1998. (25) E. W. Böckenförde, La storiografia costituzionale tedesca nel secolo decimo nono, tr. it. a cura di P. Schiera, Giuffrè, Milano 1970. (26) Ivi, pag. 123. (27) C. A. Viano, I paradigmi della modernità, in B. Accarino, P. Barcellona, U. Curi, O. De Leonardis, G. Doppelt, L. Ferrajoli, F. Ferrucci, C. Pasquinelli, P. Pinzauti, P. Schiera, C. A. Viano, R. Wolin, Problemi del Socialismo/5, Sulla Modernità, cit. , pag. 27. (28) Questo tema è ampiamente trattato in G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, pagg. 183 e segg. (29) E. W. Böckenförde, La democrazia come principio Costituzionale in Id., Stato, Costituzione, Democrazia, tr. it. a cura di M. Nicoletti, O. Brino, Giuffrè, Milano 2006. (30) E. W. Böckenförde, La funzione politica delle associazioni economico-sociali e dei portatori di interessi nella democrazia dello Stato sociale, in Id., Stato, Costituzione, Democrazia, cit. (31) E. W. Böckenförde, Mandato politico della Chiesa? In Id. Cristianesimo, libertà, democrazia, tr. it. a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2008 [a cura dell'autore]en_US
dc.language.isoiten_US
dc.publisherUniversita degli studi di Salernoen_US
dc.subjectSecolarizzazioneen_US
dc.subjectStatoen_US
dc.subjectBöckenfördeen_US
dc.titleIl paradigma della secolarizzazione a partire dalla produzione teorica di Ernst-Wolfgang Böckenfördeen_US
dc.typeDoctoral Thesisen_US
dc.subject.miurIUS/20 FILOSOFIA DEL DIRITTOen_US
dc.contributor.coordinatoreRacinaro, Robertoen_US
dc.description.cicloIX n.s.en_US
dc.identifier.DipartimentoFilosofiaen_US
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