dc.description.abstract | L’Europa ha conosciuto, nella seconda metà del XX secolo,
importanti mutamenti nella composizione delle popolazioni dei suoi
Stati a causa dei processi migratori legati alla ricerca di lavoro.
Un’organizzazione politicamente unitaria come l’Unione
europea non poteva trascurare di regolamentare questi flussi, né di
considerarne le conseguenze, tra le quali, purtroppo, alcune si sono
appalesate in un’accezione fortemente negativa, contrariamente alle
aspettative dei Padri fondatori delle originarie Comunità europee.
Tra i fattori che costituiscono un punto oscuro della raggiunta
unità dell’Europa si colloca la mancata integrazione di elementi di
diversità in contesti preesistenti, ossia gli episodi di discriminazione
che, in maniera trasversale, si verificano in tutti i Paesi e in tutti i
settori, dalla scuola al mondo del lavoro.
Nel contesto di questo studio, si è concentrata l’attenzione su un
aspetto particolare della discriminazione, ossia la discriminazione per
motivi legati alla razza, che si presenta come un’anomalia in un
progetto di integrazione e globalizzazione che dovrebbe privilegiare il
solo merito, indipendentemente dalle origini, e soprattutto che
dovrebbe porre al centro del sistema-Europa il rispetto dell’essere
umano e dei suoi diritti.
Proprio la prevenzione e la soluzione della violazione degli
stessi diritti, dettata dal pregiudizio razziale, costituisce l’aspetto
connotante un intero quadro normativo, definito “diritto
antidiscriminatorio”, che mira a colpire e disincentivare
comportamenti basati su singoli aspetti e, nello specifico caso della
discriminazione razziale, su elementi legati alla provenienza o
all’appartenenza ad un particolare ceppo etnico.
Attraverso lo studio delle Direttive, delle pronunce della Corte
di Giustizia dell’Unione europea e di particolari casi giurisprudenziali
che più di altri hanno tracciato il percorso della lotta alla
discriminazione razziale si è portato a compimento un lavoro di analisi
che consente di mettere in risalto come tutte le istituzioni dell’Unione
europea abbiano preso – gradualmente – coscienza di quanto la lotta
verso le forme di discriminazione sia complessa e di come il divieto di
discriminazione razziale, problema ancor più attuale oggi rispetto al
passato, sia costantemente disatteso nonostante i “buoni propositi” e il
grande dispendio di energie sia a livello europeo che internazionale.
L’elaborato si compone di tre capitoli che, in maniera
“graduale”, affrontano la tematica in oggetto, restituendo un quadro
della situazione caratterizzato da un lato da una copiosa produzione di
atti normativi, dall’altro dalla resistenza opposta dai singoli Stati al
recepimento degli stessi.
Il primo capitolo ha per oggetto il divieto di discriminazione nel
diritto dell’Unione europea e l’analisi è condotta attraverso
l’esplicazione di concetti fondamentali quali quello di discriminazione
in tutte le sue accezioni e di “diritto antidiscriminatorio” come nuovo
strumento per la tutela dei soggetti “deboli” e potenzialmente
discriminabili. Attraverso l’inquadramento normativo del divieto di
discriminazione e l’analisi delle Direttive-antidiscriminazione
vengono isolati i fattori di discriminazione, il fenomeno delle
discriminazioni multiple, i comportamenti vietati e le deroghe alla
normativa. Fondamentale è l’analisi del principio di non
discriminazione nelle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione
europea, in quanto è proprio la sua giurisprudenza che rende “vivo” il
cd. diritto antidiscriminatorio. La stessa Corte ha visto, infatti,
un’evoluzione delle proprie posizioni passando da una iniziale fase di
chiusura nei confronti di un proprio coinvolgimento in tema di tutela
dei diritti umani ad una fase di apertura definita “protezionistica”,
instaurando anche un dialogo aperto con la Corte europea dei diritti
dell’uomo di Strasburgo. Le strade delle due Corti, prima rigidamente
distinte, hanno infatti iniziato a convergere sul piano della protezione
dei diritti umani a partire dalla seconda metà degli anni ’80.
A tal riguardo, il discorso trova un suo completamento
nell’oggetto del secondo capitolo, ossia il divieto di discriminazione
nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali. Il capitolo prende le mosse da una
questione molto dibattuta: l’adesione dell'Unione europea alla CEDU,
nell’ottica di una rafforzata tutela dei diritti umani. Questo argomento
si colloca in un processo di approfondimento che vede l’Unione
europea impegnata a cercare mezzi sempre più efficaci ai fini della
tutela e della difesa dei diritti umani, e la CEDU si presta, più di ogni
altro strumento, ad assumere il ruolo di linea guida per la protezione
degli stessi.
Mentre tutti gli Stati dell’Unione fanno parte del Consiglio
d’Europa, l’Unione come tale non partecipa al sistema della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia le interferenze
esistenti tra le responsabilità degli Stati rispetto agli obblighi derivanti
dalla Convenzione europea e quelle derivanti dall’appartenenza
all’Unione, portano a dire che già ora vi sono difficili, ma importanti
elementi di integrazione tra il sistema dell’UE e quello della
Convenzione. Come le Corti costituzionali e le Corti supreme degli
Stati membri, la Corte UE interpreta ed applica la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo nelle controversie che sono portate al suo
esame.
Come è stato rilevato in dottrina, sotto l’ala protettrice
dell’uguaglianza si staglia l’immagine di un’Europa nuova, condivisa
e coordinata dalla giurisprudenza delle due Corti.
Sembra, ormai, sempre più chiara la tendenza delle più recenti
pronunzie della Corte di Giustizia a considerare i contenuti della
CEDU e le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo come
un ‘obbligatorio’ punto di riferimento nella definizione di casi che
coinvolgano fundamental rights; al di sopra di tutto pare, d’altro
canto, muoversi il principio di uguaglianza che emerge come
strumento di integrazione non solo giurisprudenziale, ma anche
politica in sede europea.
La stessa dottrina rileva come la tutela dei diritti fondamentali,
che sembra avvicinare le due Corti, trovi nella parità di trattamento il
suo nodo centrale; tale convergenza, tuttavia, ha il proprio ubi
consistam e, forse, al contempo, il proprio confine, in quello che
potrebbe essere definito un “metaprincipio” del diritto europeo, il
principio di uguaglianza, sovraordinato, incondizionato ed
immediatamente applicabile. E, tuttavia, ad un esame più
approfondito, il contatto fra le Corti può assumere una diversa e più
ampia portata e, soprattutto, può superare il rischio di incorrere in
quelli che sembrerebbero inevitabili contrasti qualora si muova lungo i
binari di quel completo restatement dei diritti fondamentali
provenienti dalle fonti più disparate che, nelle intenzioni dei
compilatori, era destinato a diventare il first point of reference per tutti
i soggetti coinvolti nella tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del
diritto dell’Unione Europea: la Carta di Nizza-Strasburgo.
Al cuore non più solo della giurisprudenza della CEDU ma
anche di quella della CGCE si trovano diritti legati alla tutela della
persona che più di altri si prestano ad un dialogo serrato con i giudici
nazionali e con i legislatori nazionali.
Sembra che il principio di uguaglianza vada, via via, assumendo
una forza dirompente, unificante, rispetto alle giurisprudenze
nazionali e a quelle sovranazionali promananti dalle due Corti.
Tuttavia tale processo di stabilizzazione richiede il compimento di un
percorso di integrazione europea nel rispetto assoluto dei diritti
fondamentali. Ed è in quest’ottica che assume forza aggregatrice la
realizzazione del processo di adesione dell’Unione europea alla
CEDU.
Il lavoro prosegue con l’analisi della tutela prevista dall’art. 14
della CEDU, delle questioni legate al suo limitato ambito di
operatività e del tentativo di ampliamento della stessa operato dal
Protocollo n. 12. Nel sottolineare la portata dei diritti sanciti dalla
CEDU, vengono infine presentati i casi di applicazione
giurisprudenziale più rilevanti: dal caso Nachova c/ Bulgaria al caso
S.H. e altri c. Austria.
Il terzo capitolo, infine, entra nel vivo della questione,
affrontando il tema del divieto di discriminazione su base razziale
nell’ordinamento europeo ed internazionale.
L’analisi non può prescindere dalla presentazione di quelli che
sono gli sviluppi recenti del principio di non discriminazione razziale
negli atti europei ed internazionali, in quanto proprio il continuo
“divenire” di tale principio assicura una tutela ed un’attenzione
costante su un tema così delicato ed importante.
Particolare attenzione è dedicata alla Direttiva 2000/43/CE,
grazie alla quale è possibile individuare i casi di discriminazione
razziale diretta e indiretta, e alla Decisione-quadro 2008/913/GAI del
Consiglio in tema di lotta contro talune forme ed espressioni di
razzismo e xenofobia che, seppur non recepita, rappresenta comunque
un passo fondamentale nel processo di costruzione delle tutele in
quanto pone una caratterizzazione di tipo penale, a differenza di
quanto sino ad allora accaduto.
I meccanismi di tutela dalla discriminazione e il principio di
«integrazione orizzontale delle pari opportunità in tutti i settori di
azione», ossia il mainstreaming, completano il quadro analitico.
Infine, a completamento del percorso di indagine, è presentato il
c.d. “caso Feryn”, che costituisce ad oggi la prima, se non esclusiva,
interpretazione pregiudiziale della Corte di Giustizia sulla Direttiva
2000/43/CE e, pertanto, si configura come una “pietra miliare” nel
processo di interpretazione del divieto di discriminazione razziale. [a cura dell'autore] | en_US |