dc.description.abstract | Con l’estratto in questione, è possibile delineare i “confini” di questo fenomeno istituzionalizzato di natura pressoché giurisprudenziale e la sua attuale portata applicativa.
In tal senso sono pacificamente condivise dalla maggior parte della dottrina sul tema,le osservazioni e le considerazioni volte ad evitare il rischio di una dilatazione incontrollata del mobbing. Invero non si può arrivare a considerare ogni screzio, scortesia o maleducazione quale fonte di responsabilità risarcitoria, bensì è opportuno riservare la valutazione di illiceità e la conseguente tutela alle situazioni più gravi di vessazioni e angherie all’interno del luogo di lavoro.
Viceversa, non si può giungere all’estremo opposto del riduzionismo indiscriminato del fenomeno, aderendo a posizioni volte a marginalizzare il mobbing in ragione dell’inesistenza di un c.d. «diritto alla felicità» nel rapporto di lavoro, preteso dai lavoratori.
Autorevole dottrina ha ricavato un principio fondamentale che dovrebbe guidare gli operatori giuridici, ogniqualvolta si trovino di fronte a casi di presunto mobbing, affinché diano la giusta portata ad una fattispecie ancora incerta nei suoi confini applicativi: «non ogni forma di pressione psicologica può considerarsi mobbing, ma soltanto quella obiettivamente ed effettivamente in grado di ferire la dignità morale e psicofisica del prestatore di lavoro, per la sua intrinseca offensività, per le modalità attraverso cui viene esercitata o per le condizioni personali e la posizione rivestita; ovvero che, pur potendosi escludere il comportamento doloso, abbia provocato un danno alla personalità del lavoratore.
Ne consegue, in caso di controversia, la valutazione “ ex post” delle questioni devolute al caso concreto al fine di evitare che qualsiasi condotta venga definita mobbizzante lì dove,invece si è di fronte a semplici vessazioni. Si è detto poi che l’importanza in campo giuridico del
mobbing si apprezza soprattutto su di un piano fattuale; si ritiene pertanto opportuno che l’azione del lavoratore sia volta all’accertamento non tanto del mobbing o delle sue fasi, quanto della violazione di norme giuridiche che comporti da un lato una responsabilità imputabile, dall’altro un pregiudizio alla persona.
In altri termini, il mobbing non è, e non deve essere, il titolo dell’azione giudiziaria (causa poetendi), ma la cornice fattuale entro la quale si inserisce una condotta illecita e la cui comprovata sussistenza può fornire elementi utili, se non decisivi, in ordine all’analisi della dinamica dei fatti e delle relative responsabilità, alla prova del nesso causale tra la condotta e le conseguenze, all’esame della prevedibilità degli eventi dannosi; alla quantificazione e liquidazione del danno. Il titolo dell’azione sarà piuttosto la lesione della personalità morale ed eventualmente dell’integrità fisica del lavoratore. Da qui l’enorme difficoltà dell’interprete che è chiamato ad individuare tale fenomeno. E’ certamente di ausilio all’interprete,individuare le condotte mobbizzanti attraverso una serie di fasi o modelli ben precisi che delineano i contorni del fenomeno mobbing individuate dal ricercatore Harald Ege.
L’INDIVIDUAZIONE DEL MOBBING IN FASI BEN PRECISE
Un solo atto non integra la fattispecie del mobbing, che è invece un processo in evoluzione, uno "stillicidio" di azioni (o omissioni) che, singolarmente considerate, potrebbero anche risultare del tutto insignificanti. A ciò si aggiunga che le motivazioni che muovono i mobber e le finalità che essi perseguono possono essere le più varie.
Gli psicologi e gli esperti che hanno studiato a fondo il fenomeno hanno pertanto cercato di definire i diversi stadi o fasi del mobbing, anche al fine di comprenderne le conseguenze sulla vittima.
Leymann ha proposto un modello strutturato in quattro fasi (Leymann 1996). In breve sintesi, la prima fase è costituita dai conflitti quotidiani presenti nel luogo di lavoro (attacchi, scherzi, meschinità); si passa successivamente dal conflitto al mobbing: la vittima assume una posizione esclusivamente difensiva, venendosi a trovare progressivamente sempre più isolata; emergono a questo punto i primi sintomi di stress e malattia psicosomatica. La terza fase è costituita dall'ostilità del servizio del personale, che necessariamente ad un certo punto deve intervenire, quantomeno perché vi sarà la percezione di qualcosa di anomalo e dell’esistenza di un problema (ripetute assenze, lamentele ecc.): in questa fase la vittima assume inevitabilmente la posizione di accusato. I diritti della vittima sono quindi pregiudicati, e ciò avviene per determinazione o, quantomeno, per tolleranza o scarsa conoscenza dei fatti da parte dei superiori gerarchici o dei responsabili del personale. Leymann fa presente che dalla prima fase si può passare direttamente alla terza, specie quando il mobbing è di tipo verticale. L'ultima fase è costituita dall'esclusione dal mercato del lavoro, nei diversi modi possibili (isolamento totale, trasferimento, licenziamento, malattia di lunga durata, pensione di invalidità, ecc.)
Il ricercatore che più ha studiato il mobbing nella realtà italiana, Harald Ege, ha notato che il modello sopra descritto, frutto degli studi in area scandinava e tedesca, non aderisce perfettamente alla realtà sociale italiana, che risulta più complessa e si caratterizza per una diffusa e fisiologica conflittualità in azienda, per il ruolo particolare assunto dalla famiglia (più presente e "protettiva" rispetto ad altri paesi) e per la difficoltà di trovare un diverso impiego.
Ege ha quindi ampliato il modello di Leymann per renderlo maggiormente rispondente alla realtà italiana e ne ha proposto uno composto da sei fasi, più una pre‐fase denominata "condizione zero", che rappresenta una situazione iniziale ‐ sconosciuta alla cultura nordeuropea ‐ costituita da un conflitto fisiologico, normale e accettato, tipico delle aziende (banali diverbi, piccole accuse o ripicche), che non costituisce mobbing, ma è terreno fertile al suo sviluppo, e che non è indice di una volontà di distruggere o prevaricare, ma di elevarsi sugli altri.
Le fasi del modello Ege sono le seguenti:
Fase I: Il conflitto mirato
E’ la prima fase del mobbing in cui si individua una vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale. Il conflitto fisiologico di base dunque prende una svolta, non è più una situazione stagnante, ma si incanala in una determinata direzione a questo momento l'obiettivo non è più solo quello di emergere, ma quello di distruggere l'avversario, fargli le scarpe. Inoltre, il conflitto non è più oggettivo e limitato al lavoro, ma sempre più adesso sbanda verso argomenti privati. (…).
Fase II: L’inizio del mobbing
Gli attacchi da parte del mobber non causano ancora sintomi o malattie di tipo psico‐somatico sulla vittima, ma tuttavia le suscitano un senso di disagio e fastidio. Essa percepisce un inasprimento delle relazioni con i colleghi ed è portata quindi ad interrogarsi su tale mutamento. (…).
Fase III: Primi sintomi psicosomatici
La vittima comincia a manifestare dei problemi di salute e questa situazione può protrarsi anche per lungo tempo. Questi primi sintomi
riguardano in genere un senso di insicurezza, l'insorgere dell'insonnia e problemi digestivi. (…).
Fase IV: Errori ed abusi dell’amministrazione del personale
Il caso di mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito dagli errori di valutazione da parte dell'ufficio del Personale. La fase precedente, che porta in malattia la vittima, è la preparazione di questa fase, in quanto sono di solito le sempre più frequenti assenze per malattia ad insospettire l'amministrazione del personale. (...).
Fase V: Serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima
In questa fase il mobbizzato entra in una situazione di vera disperazione. Di solito soffre di forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie, che hanno solo un effetto palliativo in quanto il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. Gli errori da parte dell'amministrazione infatti sono di solito dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno del mobbing e delle sue caratteristiche. Conseguentemente, i provvedimenti presi sono non solo inadatti, ma anche molto pericolosi per la vittima. Essa finisce col convincersi di essere essa stessa la causa di tutto o di vivere in un mondo di ingiustizie contro cui nessuno può nulla, precipitando ancora di più nella depressione. (…).
Fase VI: Esclusione dal mondo del lavoro
Implica l'esito ultimo del mobbing, ossia l'uscita della vittima dal posto di lavoro, tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al pre‐pensionamento o ancora eventi traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l'omicidio o la vendetta sul mobber. Anche questa fase è preparata dalla precedente: la depressione porta la vittima a cercare l'uscita con le dimissioni o licenziamento, una forma più grave può portare al pre‐pensionamento o alla richiesta
della pensione di invalidità. I casi di disperazione più seri si concludono purtroppo in atti estremi. (…)”.
I modelli sopra descritti riguardano i casi di mobbing tra colleghi o tra superiori e subalterni; non descrivono, invece, alla perfezione i casi di bossing (mobbing pianificato dai vertici aziendali), che seguono dinamiche in parte diverse (si pensi ai cd. "reparti confino") soprattutto per quanto riguarda le fasi iniziali. In ogni caso anche le pratiche di bossing rientrano a pieno titolo nel mobbing essendo sostanzialmente identiche sia le modalità di aggressione (che anzi possono essere ancora più subdole), sia le conseguenze per la vittima.
Naturalmente l'iter descritto può concludersi anche nelle fasi iniziali, anzi probabilmente l'esito finale è limitato ad un numero limitato di casi; può darsi infatti che la vittima sappia reagire e far valere le proprie ragioni, oppure che chieda e ottenga subito un trasferimento o trovi volontariamente una diversa occupazione; può darsi ancora che sopravvenga un efficace intervento dell'amministrazione del personale.
Affinché un’azione vessatoria possa essere considerata giuridicamente rilevante non è ovviamente indispensabile che essa raggiunga l'ultima fase, né che segua esattamente l’iter sopra descritto, ma è necessario – e sufficiente – che la condotta cagioni un danno ingiusto alla persona, casualmente collegato agli atti posti in essere dai mobber, ovvero che integri i presupposti di una diversa forma di tutela prevista dall’ordinamento come, per esempio, la tutela inibitoria o quella indennitaria. Neanche è necessario che si verifichi un danno alla salute, risultando sufficiente, per entrare nel campo del giuridicamente rilevante, che sussista un pregiudizio alla
personalità morale, e quindi alla dignità, del lavoratore.
LA RESPONSABILITA’ DA MOBBING
I fatti di "mobbing" sul luogo di lavoro, (aggressioni, discussioni, liti, insubordinazioni, dequalificazioni, inattività forzate, molestie sessuali, comportamenti omissivi ed elusioni di doveri, uso strumentale ed estorsivo del potere disciplinare, trasferimenti pretestuosi, boicottaggi, atteggiamenti beffardi dei superiori e dei colleghi , umiliazioni ingiustificate nelle progressioni di carriera, osservazioni e provocazioni quotidiane, atti e comportamenti di ingiuria e diffamazione, ecc) sono produttivi di danni ben precisi, rilevanti sia sotto il profilo civile sia sotto quello penale. Civilisticamente abbiamo innanzi tutto come conseguenza più frequente del "mobbing" - il danno biologico , concetto ormai pacifico nella giurisprudenza italiana; abbiamo poi il danno professionale , anch’esso ampiamente riconosciuto sia dalla giurisprudenza di merito che di legittimità. Il danno biologico deve essere integralmente addebitato in maniera personale e diretta "agli autori del mobbing"; questo deve avvenire ogni volta che ricorrano le condizioni previste dall’art. 2043 cod. civ., indipendentemente dalle obbligazioni (importanti sì, ma pur sempre "di regresso") gravanti sul datore di lavoro ex art. 2049 e 2087 cod. civ. Penalmente parlando, si dovrà procedere – a querela del "mobbizzato" o anche d’ufficio, nei casi in cui è possibile – per tutte le fattispecie che dovessero emergere, fra cui, per fare l’esempio più frequente, per il reato di lesioni. Ma anche del danno professionale, oltre al datore di lavoro per i consueti titoli (art. 2103 ma anche 2087 e 1375 cod. civ.), "devono rispondere aquilianamente gli autori del mobbing", in tutti i casi in cui il danno è eziologicamente riconducibile a reiterati comportamenti personali, dolosi o colposi (per es. ingiustificate sottrazioni di pratiche importanti avvenute per iniziative personali di determinati capiservizio) che hanno comportato ingiuste dequalificazioni o emarginazioni del lavoratore. A maggior ragione, di quanto sopra gli autori del "mobbing" devono
rispondere, questa volta sotto il profilo penale, quando i fatti suddetti, come non di rado succede, oltre ad essere apprezzabili sul piano civilistico come danno professionale sono rilevanti sul piano penale a diversi titoli (si pensi anche solo a comportamenti che , legati a dequalificazioni artatamente indotte, sono fatti di ingiuria, diffamazione, ecc; si veda Cass. Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539, di cui amplius più oltre) L’orientamento prevalente (ma non incontrastato) classifica come "cause di lavoro", con tutte le conseguenze sul rito e sulla competenza, anche quelle (non numerose) in cui si è azionata ( o azionata anche) la responsabilità personale di colleghi; in questo senso, per esempio, Pret. Torino 17/5/96; Cass. 2/3/94 n. 2049; Cass. 20/1/93 n. 698; Pret. Roma 7/6/89; Trib. Milano 15/2/86; Cass. 6/2/85 n. 897; Cass. 27/5/83 n. 3689; Cass. 8/8/83 n. 5293; Cass. 12/12/83 n. 7329; Cass. 19/4/82 n. 2437; Cass. 22/9/81 n. 5171. Sotto il profilo sostanziale appare opportuno individuare il rito da seguire, e il giudice competente a definire la controversia. L’orientamento non è pacifico, in quanto vi sono pronunce che, forse più opportunamente, hanno distinto la "causa petendi"; se la stessa è costituita dalla responsabilità extracontrattuale, si applicano le normali norme sulla competenza: questo tanto se l’azione è impostata contro il collega (un esempio: Trib. Milano 9/5/98 per un caso di molestie sessuali sul luogo di lavoro) quanto contro lo stesso datore (un esempio: Cass. 12/11/96 n. 9874 per un sinistro stradale occorso mentre l’attore si recava al lavoro). E’ tuttavia innegabile che il primo orientamento sia prevalente; fondamentale, al riguardo, si presenta la pronuncia della Cassazione, Sez. Lavoro , 8/9/99, n. 9539 che riguarda fatti in cui , sono certo, molti "mobbizzati" potrebbero riconoscersi.
DANNI DA MOBBING
Tre sono i danni risarcibili da mobbing:
patrimoniale, morale e biologico.
Esiste anche il cd “danno esistenziale da mobbing” che si ottiene quando le condotte mobbizzanti ledono interessi costituzionalmente protetti.(diritto
alla salute etc.) non si può infatti negare che la persona ha subito un pregiudizio ingiusto, una lesione ad un bene primario dell’esistenza, che richiede una riparazione. Pertanto, il “danno da mobbing” sembra trovare naturale collocazione proprio all’interno della categoria del danno c.d. esistenziale, ancor prima che nel danno biologico o morale.
Il danno non patrimoniale da lesione di interessi costituzionalmente tutelati assicura la tutela risarcitoria a fronte di quegli eventi suscettibili di ripercuotersi in modo rilevante, e talora permanente,sull’esistenza della persona.
In tema di liquidazione del danno da mobbing, per ciò che concerne il danno esistenziale viene liquidato in via equitativa mentre per il danno biologico valgono le tabelle INAIL per infortunio sul lavoro, per quanto attiene al danno psico-fisico e si procede a liquidare in una percentuale del danno biologico il danno propriamente morale. Il danno patrimoniale da intendersi come danno derivante dalla dequalificazione professionale viene liquidato con una percentuale della mensilità di retribuzione per ogni mese di demansionamento oppure in via equitativa; esso va inteso anche come danno derivante dall'illegittimo licenziamento o dalla dimissioni giustificate sulla base del comportamento illegittimo del datore di lavoro. In esso vanno ricompresi pertanto il danno da lucro cessante, causato dalla ridotta capacità di produrre reddito ed il danno emergente, dovuto alle spese mediche sostenute per via della malattia indotta dal comportamento illecito del datore di lavoro.
In ogni caso il riferimento normativo principale è sempre l'art. 2087 Civile Code., che stabilisce il dovere da parte del datore di lavoro di assicurare la Messa in atto di comportamenti e di misure atte a tutelare l'integrità fisica e morale del lavoratore, quale trasposizione dei valori costituzionali di cui agli art. 32 e 41 della Costituzione ma anche altresì il divieto di comportamenti lesivi dell'integrità psicofisica (fonte di responsabilità contrattuale) e la responsabilità contrattuale per la violazione dei principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375.
La causa giuridica del mobbing ai sensi del parere della Suprema Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili con sentenza n. 8438 del 4 maggio 2004 è nella violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di
lavoro in particolare in quegli atti di potere datoriale posti in essere in violazione del principio di protezione delle condizioni lavorative nonché della tutela della professionalità così come prevista dall'art. 2103 c.c., indipendentemente dalla durata nel tempo dei comportamenti e dei loro effetti.
TUTELA DELLA PERSONA DAL MOBBING
La tutela che l'ordinamento appronta per prevenire e sanzionare le ipotesi di mobbing si svolge su ambiti giuridici differenti e fa riferimento a diverse fonti che per completezza analiticamente vengono enunciati nella seguente maniera:
A. COSTITUZIONE A parte le norme generali a tutela della persona (artt. 2 e 3), numerose sono le altre norme della Costituzione poste a garanzia dell'individuo inserito nella realtà lavorativa:
a. Art. 32, che riconosce la tutela della salute come diritto fondamentale dell'uomo;
b. Art. 35, che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme;
c. Art. 41, che vieta lo svolgimento della attività economica privata se esercitata in contrasto con l'utilità sociale o qualora rechi danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.
1. CODICE CIVILE E DI PROCEDURA CIVILE
a. Art. 2043, che prevede l'obbligo del risarcimento per chi cagioni ad altri un danno ingiusto. È da segnalare, in particolare, l'importanza data a questa norma dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 411 del 24 gennaio 1990, nella quale viene stabilito che «il bene della salute costituisce oggetto di un autonomo diritto primario e quindi il risarcimento
per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sulla idoneità del soggetto a produrre reddito e cioè al danno patrimoniale inteso come diminuzione del reddito per esborsi di denaro (cure e/o trattamenti medici o acquisto di prodotti farmaceutici) cosiddetti danno emergente, o come possibilità di perdita di guadagno a causa della condotta del molestatore (lucro cessante), ma deve essere esteso al danno biologico inteso come lesione inferta al bene dell'integrità psichica in sé e per sé».
b. Art. 2087, che dispone che «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Non si tratta, quindi, di una norma a contenuto negativo, ma impone piuttosto un obbligo di attivazione ad opera dell'imprenditore al fine di impedire che si verifichino ipotesi di mobbing. Così la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimità del licenziamento di lavoratori che hanno posto in essere delle gravi condotte nei confronti di altri dipendenti (mobbing orizzontale). Allo stesso modo è stato stabilito che «la negazione o l'impedimento allo svolgimento delle mansioni lede il diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore» (Cass. 5.10.2001).
c. Art. 700 c.p.c., che garantisce una tutela in via cautelare nel caso di comportamenti pregiudizievoli o discriminatori che pongano in serio pericolo il lavoratore.
d. ALTRE NORME
e. legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), in particolare l'art. 7, che prevede una specifica procedura disciplinare contro gli abusi del datore di lavoro, l'art. 13 a tutela del lavoratore dai comportamenti di dequalificazione professionale e l'art. 15 che sanziona con la nullità gli atti che abbiano finalità discriminatorie ai danni del lavoratore.
f. Decreto legislativo 626/94, che ha sancito il principio che il diritto alla salute deve essere inteso non solo come assenza di malattia, ma anche come assenza di disagio.
In questa elencazione vi sono le fonti normative primarie alle quali il soggetto mobbizzato può invocare tutela,ovviamente ,nelle debite sedi giudiziarie.
Esistono altri casi particolari di tutela dal fenomeno mobbing,analiticamente sono: antidiscriminatoria, collettiva, sindacale, indennitaria.
Esaminandone solo una nello specifico, in particolare la tutela verso le discriminazioni, la quale è disciplinata dall’art. 4 del decreto legislativo che prevede che detta tutela si svolga nelle forme previste dall’art. 44, commi da 1 a 6, 8 e 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (disciplina immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
Lo stesso articolo 4 dispone poi – riproducendo in parte quanto già previsto dal citato art. 44 – che il giudice possa ordinare la cessazione della condotta o dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti e possa altresì stabilire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, entro un termine determinato.
Il comma 8 dell’art. 44 d.lgs. 286/1998, espressamente richiamato, prevede una sanzione penale per chiunque eluda i provvedimenti del giudice. Il comma 11 del medesimo articolo dispone inoltre la decadenza da eventuali agevolazioni pubbliche godute e l’esclusione dagli appalti di pubbliche amministrazioni per le imprese condannate per atti discriminatori.
L’art. 4 del d.lgs 216/2003 prevede altresì espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale, nonché la possibilità di ordinare la pubblicazione della sentenza a spese del convenuto.
E’ previsto, inoltre, che il giudice possa valutare gli elementi dedotti dal ricorrente ai sensi dell’art. 2979, primo comma, c.c. (!). Tale
semplice (quanto inutile) richiamo non si pone tuttavia perfettamente in linea con l’art. 10 della direttiva europea, che aveva invece disposto che gli Stati membri assicurassero che nel caso in cui la persona che si ritiene discriminata esponga “fatti dai quali si può presumere una discriminazione diretta o indiretta” sia a carico della parte convenuta “provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento”.
Ne consegue che la sopra citata normativa non introduce innovazioni particolarmente significative rispetto agli strumenti di tutela già presenti nell’ordinamento.
In funzione di prevenzione potrebbe giocare un ruolo importante la tutela collettiva di cui all’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, che prevede il diritto dei lavoratori stessi, tramite le loro rappresentanze, non solo di controllo, ma anche di promozione dell’applicazione di tutte le misure idonee alla salvaguardia dagli infortuni e dalle malattie professionali.
Il CCNL Ministeri 2002/2005 ha preso in considerazione il mobbing disponendo da un lato l’istituzione di un comitato paritetico (art. 6), dall’altro prevedendo l’applicabilità di una sanzione disciplinare per i mobber (art. 13, co. 4, lett. e).
In una diversa prospettiva, è possibile una tutela indennitaria presso l’INAIL. La riforma operata con d.lgs. n. 38/2000, infatti, ha ampliato la tutela offerta da tale Istituto, passando da un sistema di indennizzabilità delle sole malattie individuate ex lege (malattie professionali in senso stretto) ad un sistema che prevede l’indennizzabilità di tutte le patologie di cui sia provata la correlazione con il lavoro (Gambacciani 2003, 323). Il mobbing – è chiaro – non è
una malattia, ma può essere causa di determinate malattie. Qualora pertanto i suoi effetti siano tali da cagionare una malattia in senso proprio (danno biologico) si può rientrare nell’ambito del danno indennizzabile ex art. 13 d.lgs. 38/2000. La circolare INAIL n. 71 del 17.12.2003, avente ad oggetto i disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro, ha recato le necessarie precisazioni a riguardo; tale circolare, tuttavia, è stata successivamente annullata con sentenza del TAR Lazio del 4.7.2005, n. 5454 (in dirittolavoro.altervista.org/link3.html).
Solo per “dovere di cronaca”, infine, si accenna alla legge della Regione Lazio 11.7.2002, n. 16, che recava disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, su impugnativa del Governo, con sentenza 19.12.2003, n. 359, (www.altalex.it) sul principale rilievo che tale normativa sarebbe venuta ad incidere sulla disciplina civilistica dei rapporti di lavoro.
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