Il paradigma della secolarizzazione a partire dalla produzione teorica di Ernst-Wolfgang Böckenförde
Abstract
Il lavoro dei concetti -
Occuparsi del tema della secolarizzazione significa tentare l’analisi di un
concetto filosofico. I concetti, come avverte la Begriffsgeschichte, sono vocaboli dal destino
particolare: nascono in determinati contesti storici, ne subiscono le vicende,
vengono usati, strumentalizzati, abusati, e, qualche volta, smarriscono il loro
significato originale, “rimangono senza padrone” (1), per dirla con le parole di
Lübbe.
Nella teoresi filosofica, i concetti sono utili per restituire un’immagine della
realtà, ma questa immagine è continuamente condizionata da chi il concetto lo utilizza . Quello che Hegel chiama «il lavoro del concetto» (2) è precipuamente l’impegno continuo del filosofo di adeguare i concetti in funzione della realtà che muta, e del quadro di riferimento costruito dalla prassi filosofica: è la realizzazione di un moto dialettico che si situa nell’interazione tra la teoria e la prassi.
I concetti dovrebbero essere, quindi, nella ricerca filosofica, il simbolo di un
modo di approcciarsi alle cose scientifico, distaccato, devoto unicamente
all’acquisizione della conoscenza. La filosofia però (3), non è sempre aliena da condizionamenti ideologici, politici, personali. Nel gioco dialettico tra teoria e prassi in cui si trova il concetto può accadere che la prassi prevalga, e la filosofia diventi “politica delle idee” (4): non solo nel modo più brutale, cioè quando essa è asservita ad un potere piuttosto che ad un’altro, e il filosofo dimentica i doveri che Max Weber attribuisce all’ “intellettuale di professione”, ma anche in maniera più soft, ma non per questo priva di conseguenze, quando una posizione filosofica smetta di essere una posizione scientifica, per diventare un ideale, una fede. In questo caso la ricerca filosofica diviene mero terreno di battaglia politica e i concetti diventano le “parole d’ordine” (5) dei vari schieramenti.
Il concetto di secolarizzazione è complesso perché ha vissuto tutte queste
vicende: ha lavorato come concetto, muovendosi nelle pieghe dialettiche dello sviluppo storico, ed è stato talvolta travolto dalle vicende della storia,
rimanendovi ingabbiato.
‘Secolarizzazione’ come metafora -
Il termine secolarizzazione, originariamente, veniva utilizzato nel linguaggio
giuridico per indicare la sottrazione di un bene, una proprietà, o addirittura un
soggetto al controllo ecclesiastico. Le fonti documentano l’utilizzo di questo
termine, per la prima volta, dal legato francese Longueville, durante le trattative
della pace di Westfalia, per indicare la liquidazione dei beni ecclesiastici. In
un’accezione non dissimile, lo ritroviamo nel Codex Juris Canonici, per indicare
il ritorno di un soggetto appartenente alla comunità monastica, allo stato di
laico (6). Il termine quindi non aveva, originariamente, alcuna connotazione
negativa, descriveva anzi situazioni spesso poste in essere volontariamente dalla
Chiesa: la secolarizzazione di taluni beni ecclesiastici permise, ad esempio, la
fondazione delle Università (7).
Soltanto dopo la deputazione imperiale del 1803, e l’ingente appropriazione dei
beni della Chiesa da parte di Napoleone, la parola “secolarizzazione” divenne
sinonimo, negli ambienti ecclesiastici, di usurpazione, illegittima emancipazione
dal controllo della Chiesa. Nella Kulturkampf della seconda metà del XIX
secolo quella usurpazione spaccò gli intellettuali in due grossi partiti: coloro che
la biasimavano, appoggiando le vittime di quella colossare rapina, e coloro che,
pur non elogiando le gesta delle truppe napoleoniche, consideravano la
secolarizzazione giustificata alla luce di un più alto destino di progresso poltico -
costituzionale (8). Ci volle più di un secolo per ridurre la distanza tra queste due
opposte posizioni e condurre i detrattori della secolarizzazione a ritenere che, tutto sommato, quella vicenda storica poteva aver giovato alla Chiesa Cattolica,
regalandole la possibilità di concentrarsi su vicende più propriamente spirituali, e
i liberali, i quali riconobbero che la secolarizzazione, oltre ad avere dei grossi
meriti, era stata altresì la causa della distruzione di grosse opere culturali. La
storia del termine secolarizzazione, nel suo significato più propriamente tecnico
giuridico, può sommariamente riassumersi in questo modo. Il senso filosofico giuridico
del termine, si avvicina soltanto lontanamente a questo remoto
significato, ed in maniera metaforica, come afferma Marramao.
In questo lavoro, sarà nostro intento quello di occuparci delle secolarizzazione,
intesa come categoria filosofico- giuridica.
Il punto di partenza della nostra riflessione è rappresentato dai testi del filosofo e
giurista tedesco Ernst Wolfgang Böckenförde, il quale, con i suoi scritti, ha
fornito un contribuito notevole al dibattito sul tema ed ha consentito di
inquadrare il fenomeno della secolarizzazione nel panorama che gli è proprio: lo
Stato Moderno. Poiché, come si evince dalla produzione teorica del giurista
tedesco, parlare della secolarizzazione vuol dire parlare della modernità, del suo
peculiare orizzonte di senso, delle sue contraddizioni. Ciò non costituisce un
rifugio sicuro per la riflessione teorica, poiché la nozione stessa di modernità è
complessa. Cosa è il moderno?
È difficile fornire una definizione senza cadere nella trappola della auto
rappresentazione del moderno. Se non ci si vuole accontentare di una
definizione meramente in negativo – non è moderno il medioevo, non è moderna l’età greco-romana, non è moderno, come taluni sostengono, l’attuale realtà
geopolitica (9) - è opportuno soffermarsi sul dato per cui gli ordinamenti giuridici moderni sono caratterizzati dal tentativo di costruire un ordine umano, postsostanziale,
oltre la trascendenza. Nel primo Capitolo di questo lavoro,
analizzeremo il motivo per cui, per Böckenförde, la modernità non ‘irrompe’ nel
Cristianesimo, ma quest’ultimo la influenza sin dai primordi, sin dalla lotta per
le Investiture. Böckenförde, come Joseph Strayer - autore assai diverso per
impianto teorico – mette in evidenza come, tra gli altri, sia stata proprio la
Chiesa, col suo lavoro di istituzionalizzazione del potere, ad anticipare le
strutture dello Stato moderno (10). La centralizzazione del potere, e la conseguente
burocratizzazione delle strutture amministrative, l’idea di un diritto limitato e
razionale, sono tutti concetti ereditati dall’ambito ecclesiastico. Gli stessi valori
della religione cristiana rappresentano una componente essenziale dell’odierno
Stato liberaldemocratico, il quale si fonda essenzialmente su due principi: La
libertà e l’uguaglianza (11). Il Leviatano di Thomas Hobbes è l’emblema di tali
ordinamenti: una costruzione artificiale, razionale, secolarizzata, che nasce
quando «gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano – ciascuno
singolarmente con ciascun altro - che qualunque sia l’uomo o l’assemblea di
uomini a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la persona di
tutti loro ( cioè a dire di essere il loro rappresentante) , ognuno – che abbia
votato a favore o che lo abbia votato contro – autorizzerà tutte le azioni e i
giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini alla stessa maniera che se
fossero propri, affinchè possano vivere in pace tra di loro ed essere protetti
contro gli altri uomini» (12). L’ordine moderno si presenta come giuridificato,
funzionante meccanicamente, e sussistente in virtù di regole costitutive e
performative: come sottolinea Norberto Bobbio, è il governo della legge e non il
governo degli uomini, o, per usare le parole di Carl Schmitt, « il positivo diviene
l’ultimo fondamento di validità» (13). Come vedremo nel corso del secondo
Capitolo, il modello del ‘patto’ rappresenta la narrazione rassicurante della
giustificazione del potere moderno: l’adesione del singolo individuo, il quale
abbandona lo stato di natura per aderire al patto e sottomettersi al potere
politico è avvertita già in Hobbes come esigenza della ragione che si genera
dalla conflittualità naturale (14). Quella stessa conflittualità ‘geneticamente’
umana, che rende lo stato di natura un bellum omnium contra omnes, rivela una
carica irresistibile di produttività politica, un’intrinseca ‘vocazione razionale’ a
condurre gli individui verso l’adesione al patto sociale. L’antropologia
terribilmente realista, ma al contempo speranzosa di Hobbes - perché confida
nella ragione, nella possibilità di un auto-trascendimento della natura in artificio
- in tal modo si rileva la più efficace teorizzazione del potere politico moderno
,per la sua radicalità, ma anche la più problematica: lo mette in evidenza
chiaramente Carl Schmitt, il quale sottolinea che «nel ragionamento
hobbesiano, altrimenti così sicuro, è insita un’indecisione proprio nel punto
giuridicamente decisivo, e cioè nella giustificazione giuridica dello Stato a
partire da un patto stipulato tra individui» (15). Al contempo, la convinzione
hobbesiana della possibilità di una sintesi tra le istanze dei consociati che non
solo aderiscono al patto sociale ma generano l’unità politica va ben al di là del
nesso protezione – obbedienza. Essa implica la convinzione che il patto fondi l’
unità politica, e che il sovrano non si limiti a difendere i consociati, ma li
‘rappresenti’ , laddove la rappresentanza assume un valore metalegale,
‘esistenziale’ (16), generando il corpo sociale, trasformando un gruppo di individui
in un popolo. Il potere politico moderno si ritrova allora continuamente a fare i conti con la sua origine spuria, problematica, di conflitto e con la perenne
ricerca dell’adeguatezza nel ‘rappresentare’ il corpo sociale. Le due difficoltà
sono facce della stessa medaglia, evidenziano come il destino del moderno sia
tentare di esorcizzare, giuridificandolo, il ‘politico’ con la politica, per
parafrasare la formula di Carl Schmitt. Nel far questo, esso non si occupa di ‘
cose politiche’ per natura: rientra in questa sfera tutto ciò che evidenzia un
elevato grado di intensità di associazione e dissociazione, tutto ciò per cui un
individuo può riconoscere un amico e un nemico (17). È politico ciò che è
suscettibile di creare conflitto, muta nel tempo, e il potere moderno deve
districarsi in questo equilibrio instabile di neutralizzazione e ripoliticizzazione
del conflitto: in questa attività complessa la posta in gioco è la capacità di
’rappresentare’. Come sottolinea Severino (18) è un destino di angoscia, quindi,
perché non lascia altra strada che quella di confidare nella ‘tecnica’ politica,
giammai nelle questioni di ‘veritas’. Come vedremo nel corso del terzo capitolo,
attraverso il confronto del pensiero di Böckenförde con quanto affermato da
Habermas e Taylor, negli ultimi anni, nello Stato liberale e democratico, questa
precarietà congenita del moderno assume toni più marcati: la dialettica
parlamentare evidenzia le istanze diverse provenienti dal corpo sociale, ed il
parlamento appare al contempo un centro di mediazioni di interessi precario ed
inadeguato. Lo Stato liberaldemocratico che, secondo l’espressione di
Habermas, rappresenta la forma più compiuta di Stato Moderno (19), svela,
accentuandole, tutte le contraddizioni della modernità, al punto di apparire
continuamente ad un punto di non ritorno: Carl Schmitt, commenta l’avvento del
liberalismo politico in questo modo: «Il Leviatano come «magnus homo», come
sovrana personificazione dello Stato in forma divina, è stato distrutto dall’interno nel XVIII secolo». La produzione teorica di Böckenförde fornisce
un quadro di lettura molto esauriente delle complessità della costruzione statale
moderna. il giurista tedesco è, come sottolinea Preterossi, è «un costituzionalista
che, nel solco della tradizione tedesca, è anche un teorico della politica,un
filosofo del diritto, uno storico della cultura giuridica e delle istituzioni
giuridiche» (20). Questa sua poliedricità gli permette di fornire una lettura della
modernità da diverse angolazioni. Sin dai suoi primi scritti, egli compie un
raffinato lavoro di ricostruzione storica e di recupero dei concetti, attraverso le
letture dei testi di autori ‘classici’ della modernità: Hobbes, Hegel, Schmitt e
Lorenz Von Stein in primis, ma anche storici come Mirgeler e Brunner. Vi è un
filo rosso che attraversa la produzione teorica tanto del Böckenförde filosofo,
quanto del giudice costituzionale e del pensatore pubblico: l’attenzione riservata
ai meccanismi che permettono alla colossale struttura del Leviatano di
funzionare, rappresentando il corpo sociale, quando esso incarna i valori liberali.
Di qui il dictum che ha reso il giurista così conosciuto anche in Italia: « lo Stato
liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire» e il
giurista continua così - è opportuno precisarlo per smentire sin dall’inizio una
possibile lettura ‘reazionaria’ dell’autore tedesco «Questo è il grande rischio che
per amore della libertà lo Stato deve affrontare» (21). Nella dinamica di
neutralizzazione e politicizzazione del conflitto Böckenförde inserisce un
oggetto non spendibile: i valori sui quali si fonda lo Stato liberale. Sono valori
che lo Stato non può produrre poiché è neutrale, eppure essi legittimano in
tanta parte il potere costituito. L’opaco nucleo decisionista della politica, che
nella teorizzazione Schmittiana è assolutamente affidato alla contingenza, alla
decisione del sovrano, viene plasmato da Böckenförde proprio attraverso
quell’insieme di valori presupposti dallo Stato liberale. Schmitt rinuncia a rispondere alle sfide proposte dal pluralismo degli ordinamenti politici
novecenteschi, arroccandosi sull’idea di unità politica in termini preweimariani,
egli afferma: «uno stato pluralista di partiti diviene uno stato totale
non per vigore e efficacia ma per debolezza: interviene in tutti i campi della vita
perché ci si attende da lui che assolva le rivendicazioni di tutti gli interessati» (22).
Böckenförde, che utilizza lo strumentario concettuale schmittiano, – il politico è
presente e determinante nella vita dello Stato – lo ribalta: non solo i valori
democratici non erodono i fondamenti dello Stato, ma addirittura lo legittimano,
forniscono mehrwert politico: Böckenförde tenta in questo modo di fornire una
soluzione alla questione posta ma non risolta da Carl Schmitt, il dilemma del
cristallo di Hobbes (23). La questione problematica è dove lo Stato liberale attinga
quei valori che gli attribuiscono ninfa vitale. Il giurista tedesco esprime un’idea
che era già stata di Max Weber, per cui la genesi dello Stato Moderno in Europa
non sia un dato casuale, e che l’influenza dell’elemento religioso sia
assolutamente determinante. Nello Stato liberaldemocratico tutto può essere
messo in discussione, tutto può essere sottoposto alla prova del ‘politico’, tranne
i due principi suddetti, perché questo minerebbe ‘concettualmente’ - prima che
nella prassi politica - la possibilità di ‘scelte democratiche’ (24). Partendo da
questo assunto, l’intera produzione teorica dell’autore, dalla tesi di dottorato in
filosofia (25), agli scritti più recenti in materia economica e bioetica, appare
caratterizzata dal tentativo di indagare genealogicamente il tracciato della libertà
e dell’autonomia dei soggetti nella modernità, il che vuol dire verificare quanto vi sia di vero in quella che abbiamo definito la ‘narrazione rassicurante’ del
patto, quanto ‘valgano’ i soggetti, le scelte poste in essere da questi ultimi, e
quindi i contenuti politici che filtrano attraverso le procedure dello Stato
Moderno. La Libertà moderna si riscopre come erede diretta della libertà
germanica, le cui origini si trovano sin nella Germania di Tacito, la stessa
rivendicata dagli umanisti tedeschi durante il XV secolo contro le pretese
imperiali, la quale veniva presentata dai germanisti come il vero elemento
caratterizzante della storia del popolo tedesco. Böckenförde sembra suggerire
che il suo cammino per la piena attuazione sia quello che conduce allo Stato
Moderno : « ‘ Il carattere fondamentale del diritto Statale comunitario tedesco è
la libertà tedesca’ si legge nello Staatslexicon di Rotteck-Welcker. A questo
punto si può parlare, con E. Hölze, di un vero e proprio cammino verso la libertà
moderna accanto al diritto naturale: del cammino della libertà storica» (26). La
libertà comunitaria germanica, quindi, diviene la libertà individuale, l’autonomia
del soggetto moderno. Tutto ciò non senza la mediazione del pensiero cristiano.
Questa idea emerge dai testi del giurista tedesco, e rimanda inevitabilmente alla
riflessione di Hegel, perché, come ha scritto Viano, «Nelle mani di Hegel il tema
della libertà, come caratteristica dell’età moderna, diventava centrale: il mondo
moderno è il mondo della libertà quale diritto proprio di ogni uomo, ma anche
come interiorità. Il germanesimo forniva il modello della società dei liberi,
mentre il protestantesimo dava la dimensione dell’interiorità» (27).
Se è così, se la vera matrice dell’ordinamento liberal democratico è in qualche
modo riconducibile al messaggio cristiano, allora come si può definire il
rapporto tra lo Stato e i contenuti ‘religiosi’? Come si può definire la teologia
politica?
Nella disputa a distanza tra due colossi del Novecento, Carl Schmitt e Hans
Blumenberg, svoltasi tra le pagine della Teologia politica I e Teologia politica
II di Schmitt, La legittimità dell’età moderna di Blumenberg ed il carteggio
durato dal 1971 al 1978, Böckenförde può decisamente offrire un contributo
‘postumo’, prospettando qualle che, nel paragrafo conclusivo di questo lavoro
abbiamo definito «un nuovo tipo di teologia politica». Lungi dal proporre
nostalgicamente l’idea della possibile convergenza tra un presunto diritto
naturale e il diritto positivo, che anzi lo trova profondamente scettico, il filosofo
suggerisce una sorta di ‘terza via’. Egli, pur mettendo in discussione
quell’assoluta ‘autonomia del moderno’ che riscontriamo negli scritti di
Blumenberg, e dimostrandosi consapevole della rischiosità del ‘politico’ , della
sua capacità di espandersi, investendo campi non ‘canonici’ ( la vita privata, la
psiche del soggetto, le convinzioni degli individui), tuttavia supera la visione
schmittiana che aveva opposto alla teoria di Blumenberg la autotrascendenza del
moderno che rappresenta se stesso. Böckenförde prende in seria considerazione
l’idea di una modernità proto moderna (28), pure suggerita da Schmitt, e la analizza
compiutamente. L’impegno del giurista tedesco è sempre duplice, complice la
sua attività di giurista ‘pratico’, di giudice costituzionale , ed al contempo di
teorico e filosofo del diritto: analizzare da vicino i problemi che si trova ad
affrontare lo Stato liberale, ed operare una riflessione teorica radicale, lavorando
sui concetti. Molte delle questioni che hanno interessato le alte Corti tedesche
nell’ultimo cinquantennio sono prese in esame dal giurista per fornire una
chiave di interpretazione dei meccanismi che governano lo Stato Moderno. Si
tratta dei meccanismi democratici che, per essere presi sul serio, per garantire
«la democrazia come principio costituzionale» (29) devono assicurare l’autonomia
dell’individuo, ma anche di meccanismi sotterranei, che attribuiscono al potere politico la legittimità al di fuori del mero circuito della legalità. Si pensi ai
soggetti che, pur non essendo legittimati democraticamente, hanno potere
decisionali nello Stato: il giurista cita i grandi investitori, oppure i sindacati (30). E
si pensi alle agenzie di senso presenti nella società civile: le religioni, in primis,
perché maggiormente plasmano le opinioni, creano consensi, aggregazione,
sensi di identità, insomma, maneggiano il ‘politico’. Si possono allora depoliticizzare
le religioni? Böckenförde, in particolare se lo chiede per la
religione cattolica. E la sua risposta è “ La depoliticizzazione della Chiesa (…)
sarebbe soltanto apparente, perché si limiterebbe a occultare il fatto che la
Chiesa prenda sempre posizione in politica” (31). Una presunta neutralità politica
areligiosa, apartitica, amorale è una specie di chimera a cui neanche il più
radicale dei positivisti può aver mai seriamente creduto.
(1) H. Lübbe, La secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, tr. it. di P. Pioppi, il Mulino
1965, pag. 11
(2) G. W. F. Hegel, Filosofia dello Spirito, tr. it. di E. De Negri, La nuova Italia, Firenze, pag.
57
(3) H. Lübbe, La Secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, cit.; M. Weber, Il lavoro
intellettuale come professione, tr. it. a cura di D. Cantimori, A. Giolitti, Einaudi, Torino 1985.
(4) H. Lübbe, La secolarizzazione, storia e analisi di un concetto, cit., pag. 17.
(5) Ibidem,
(6) H. Lübbe, Potere e secolarizzazione, cit., pag. 26, M. Stallman, Was ist Säkularisierung?, J.
C. B. Mohr, Tubingen 1960, pagg. 5 ss.
(7) I. S. J. Fucek, Il peccato oggi, tr. it. a cura di G. Pelland, E. P. U. G. , Roma 1996.
(8) F. Trocini, Tra Realpolitik e deutsche Freiheit: il bonapartismo francese nelle riflessioni di
August Ludwig von Rochau e di Heinrich von Treitschke, in “Rivista Storica Italiana”, N.
CXXI, I, Aprile 2009, pagg. 338-387.
(9) Illuminante, a tal proposito, appare la riflessione di C. Pasquinelli, Alla ricerca del moderno;
C. A. Vico, I paradigmi della modernità, in B. Accarino, P. Barcellona, U. Curi, O. De
Leonardis, G. Doppelt, L. Ferrajoli, F. Ferrucci, C. Pasquinelli, P. Pinzauti, P. Schiera, C. A.
Viano, R. Wolin, Problemi del Socialismo/5, Sulla Modernità, Franco Angeli, Milano 1986.
(10) J. Strayer, Le origini dello Stato Moderno, tr. it. a cura di A. Porro, Celuc, Milano 1975.
(11) E. W. Böckenförde, L’ethos della democrazia moderna e la Chiesa, in Id. Cristianesimo,
libertà, democrazia, tr. it. a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2008
(12)T. Hobbes, Leviatano, tr. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 2010, pag. 145.
(13) L’espressione di Emge è riportata in. C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, tr. it. a cura di C. Galli, Giuffrè, Milano1986, pag. 57.
(14) C. Galli, Contingenza e necessità, Laterza, Roma-Bari 2009, pag. 47.
(15) C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, cit., pag. 54.
(16) Il termine è utilizzato in C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, tr. it. a cura di A.
Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, pag. 27.
(17) Cfr. C. Schmitt, Le categorie del politico, tr. it. a cura di P. Schiera, Il mulino, Bologna
1998.
(18) E. Severino, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma
1978.
(19) J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, tr. it. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna 1986.
(20) E. W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, tr. it. a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-
Bari 2007.
(21) E. W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, cit., p. 53.
(22) L’espressione di Carl Schmitt è riportata, nonché accuratamente commentata da J. Freund,
Les lignes de force de la pensée politique de Carl Schmitt, in “NouvelleEcole”, anno 19, n. 44,
Aprile 1987.
(23) C. Schmitt, Il cristallo di Hobbes, da Il concetto di politico in Id., Scritti su Thomas
Hobbes, cit.
(24) La posizione assunta da Böckenförde presenta, come vedremo, dei profili di somiglianza
con quanto affermato in J. Habermas, L’inclusione dell’altro, tr. it. di L. Ceppa, Milano,
Feltrinelli 1998.
(25) E. W. Böckenförde, La storiografia costituzionale tedesca nel secolo decimo nono, tr. it. a cura di P. Schiera, Giuffrè, Milano 1970.
(26) Ivi, pag. 123.
(27) C. A. Viano, I paradigmi della modernità, in B. Accarino, P. Barcellona, U. Curi, O. De
Leonardis, G. Doppelt, L. Ferrajoli, F. Ferrucci, C. Pasquinelli, P. Pinzauti, P. Schiera, C. A. Viano, R. Wolin, Problemi del Socialismo/5, Sulla Modernità, cit. , pag. 27.
(28) Questo tema è ampiamente trattato in G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, pagg. 183 e segg.
(29) E. W. Böckenförde, La democrazia come principio Costituzionale in Id., Stato,
Costituzione, Democrazia, tr. it. a cura di M. Nicoletti, O. Brino, Giuffrè, Milano 2006.
(30) E. W. Böckenförde, La funzione politica delle associazioni economico-sociali e dei
portatori di interessi nella democrazia dello Stato sociale, in Id., Stato, Costituzione,
Democrazia, cit.
(31) E. W. Böckenförde, Mandato politico della Chiesa? In Id. Cristianesimo, libertà,
democrazia, tr. it. a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2008
[a cura dell'autore]