Post Human. Esperienze e questioni di critica d’arte
Abstract
Esperienza artistica di confine, luogo di riflessione critica e di aperto dibattito
filosofico e antropologico, il Post-Human rappresenta un oggetto teorico estremamente
complesso, ricco di prospettive e di molteplici sviluppi. Una costellazione di pratiche e
di proposte critiche che, maturata nell’ultimo decennio del Novecento, continua a
segnare i percorsi dell’arte e della critica d’arte d’inizio secolo, ponendo questioni che
coinvolgono, innanzitutto, le nozioni di identità e di corpo.
In quest’ottica premessa ineliminabile è stata una disamina delle prime ricerche che
nella seconda metà del secolo scorso hanno posto al centro del proprio interesse la
corporeità, anticipando alcuni problemi sviluppati poi in maniera differente nella
stagione del Post Human. Mi riferisco essenzialmente alla Body art e alle tesi
riconducibili a Il corpo come linguaggio (Lea Vergine), dove per uno slittamento
l’artista tramite l’auto-rappresentazione diviene «soggetto e oggetto dell’opera»,
secondo l'ormai celebre definizione di Willoughby Sharp.
In particolare sono stati approfonditi i motivi di affinità e divergenza tra questa prima
fase, ormai storicizzata, e la cosiddetta nuova ondata mutazionista che emerge a
cavallo tra i due millenni.
Nel primo capitolo si è tentato di dare al dibattito tutt’ora in corso sull’argomento un
approccio trasversale e pluridisciplinare, analizzando metodologicamente posizioni tra
di loro molto distanti e concentrando la ricerca su alcuni nodi fondamentali, come le
questioni, tuttora in corso, tra tecnofobi e tecnofili; tra chi sostiene lo iato esistente tra
Homo Faber e Homo Creator (Anders); tra i “transumanisti” fautori di un’antica
volontà di potenza antropocentrica pronta a schiacciare qualsiasi alterità, espressione
della punta più avanzata dei teorici della tecno-scienza tesa a superare l’“uomo
limitato” consegnatoci dall’evoluzione, in opposizione ai nostalgici di una natura
armonica e incontaminata che rivendicano il predominio di una mitica età felice, alla
quale epoche e contesti storici hanno attribuito sfumature di significato e valenze
estetico-simboliche diverse. Posizioni spesso antitetiche nelle quali si è tentata una -
non facile - mediazione, come quella attuata da Roberto Marchesini, il quale sostiene
che natura e cultura possano essere intesi solo strumentalmente in rapporto di
opposizione, poiché nella storia evolutiva dell'uomo l'ibridazione con la tecnologia è
quasi congenita, in quanto la specie umana si è sempre caratterizzata per una elevata
capacità di rapportarsi con mondi ed esperienze lontane dalla propria, con gli animali
prima ancora che con la tecnica. È questa capacità di apertura all'altro a “definire”
l'uomo secondo Marchesini. Si deve pertanto accettare l’idea che l’essere umano è il
risultato di una co-evoluzione che lo vede strutturalmente accoppiato agli strumenti
tecnologici, all’interno di una complessa rete di feedback, negativi e positivi.
Partendo da questi presupposti, il progetto di ricerca si è poi concentrato sulla
progressiva erosione della linea di divisione tra biologico e tecnologico, da molti
considerato in atto ma che tuttavia potrebbe essere inteso come lo sviluppo di un
processo che ha condotto alla comparsa della specie umana e che trova la sua identità
sul piano dell’evoluzione filogenetica proprio in quanto soggetto e oggetto di questa
stessa erosione.
Sulla scorta di queste posizioni teoriche, eterogenee e spesso contrastanti, si è passati
ad analizzare alcuni esiti estremi di questa tendenza sotto il profilo artistico, cercando
di contestualizzare alcuni fenomeni coevi, esaminati per exempla attraverso il lavoro di
una serie di artisti, da Cindy Sherman a Matthew Barney, da Robert Gober a Paul Mc
Carthy e alcuni fenomeni coevi, e mi riferisco all’esplosione della YBA (Young British
Art), di cui alcuni esponenti (Damien Hirst, Chapman Brothers, Marc Quinn),
presentano non poche tangenze con la temperie Post-Human. Si è cercato di affrontare
per tipologie le poetiche degli artisti afferenti questa nuova sensibilità, analizzando
ambiti e territori di un movimento di pensiero destinato a diventare una tendenza
eterogenea più che uno stile o un movimento. Un particolare modo di sentire in linea
con una precisa “corrente di gusto” che attraversa i processi di transculturazione e di
ibridazione in atto.
Tra le molteplici esperienze e figure affrontate, particolare importanza è stata data allo
studio della figura e dell’opera di ORLAN, artista che funge da trait d’union tra i due
momenti della ricerca. La ricostruzione filologica di tutte le fasi della complessa
carriera dell’artista e il recupero di una serie di materiali inediti - e per la prima volta
sistematizzati - ha segnato un momento fondamentale del progetto di ricerca. Si è in
questo modo completato uno studio iniziato nel 1999-2001 con ORLAN: Art
Corporel, Art Charnel, tesi di laurea dello scrivente incentrata sui due momenti
fondamentali dell’attività dell’artista, esemplificati fin dal titolo di questo primo lavoro
che ha costituito la base teorica delle ricerche future. Le operazioni chirurgiche
performance, la parte più famosa, contestata e travisata ad un tempo, del lavoro di
ORLAN, sulle quali molto si è detto e scritto, sono state definitivamente restituite alle
reali intenzioni dell’artista, atte a trovare un’originale e provocatoria “altra via” alla
crisi della performance, realizzata trasformando la sala operatoria in un atelier dove
produrre opere d’arte, inaugurando in questo modo il paradigma mutazionista dell’arte
contemporanea che sancisce il progressivo ritorno alle tematiche corporali in
un’accezione naturalmente molto diversa da quella in auge alla fine degli anni
Sessanta, meno esistenziale e politicamente impegnata, strettamente correlata
all’assillo delle nuove tecnologie e delle biotecnologie. Una nuova tendenza nella
quale l’artista francese si rivela ancora una volta un’apripista, prima ancora della
grande mostra itinerante “Post Human” (1992-93), organizzata da Jeffrey Deitch, qui
ugualmente analizzata, sia sotto l'aspetto teorico, asciutto e ben argomentato, che sotto
quello, meno convincente, della scrittura espositiva.
La disamina del lavoro di ORLAN chiude il secondo capitolo, focalizzato sullo
sconfinamento in una sensibilità riconducibile a quella che Mario Perniola definisce
realismo psicotico, caratterizzata da nuove forme di soggettività che emergono
dall’interazione del corpo con le nuove tecnologie e dall’ibridazione col potenziale
della biogenetica; da una promiscuità ontologica (Marchesini) che ridisegna, all’inizio
degli anni Novanta, gli scenari delle poetiche legate al corpo, ormai oggetto di infinite
combinazioni tra umano e non umano, artificiale e organico, reale e virtuale e che
circoscrivono gli scenari, per certi aspetti inquietanti, del Post-Human.
Oltre la disamina degli artisti e delle occasioni espositive, oggetto del secondo capitolo
della mia ricerca, un capitolo a parte è stato dedicato alle posizioni della critica in
Italia, incentrato sullo iato esistente tra i teorici della Body Art storica e i nuovi teorici
della mutazione, esaminando anche la singolare esperienza di una rivista, “Virus”,
animata dal Francesca Alfano Miglietti, che per pochi, proficui anni, ha dato conto di
queste vicende, con uno sguardo trasversale, dall’arte alla moda, dal cinema alla
musica.
L'ultimo capitolo del lavoro si è incentrata sull’evoluzione, in parte ancora futuribile,
del Post-Human, e mi riferisco essenzialmente alla cosiddetta Art Biotech, ancora poco
studiata, che porta uno scarto ulteriore al tema della mutazione, passando
dall’acorporalità del virtuale (Virilio) ad una brusca “ri-materializzazione”
dell'oggetto d'arte, segnando il passaggio, gravido di conseguenze, dalla net-art alla
wet-art. Una buona parte delle ricerche afferenti quest’ultima parte del lavoro sono
state svolte negli Stati Uniti, dove ho reperito una serie di testi non ancora pubblicati in
Italia, che trattano questi fenomeni, in Gran Bretagna e in Francia. Particolare cura è
stata data allo studio dei rapporti tortuosi intercorrenti tra scienza ed arte, che per una
serie di teorici (Kac, Hauser) sembrano andare insieme verso il futuro, ma non in un
atteggiamento di appassionata connivenza, come ai tempi di Leonardo, prototipo
universale dell’artista-scienziato. Gli artisti, fedeli sismografi del proprio tempo,
recepiscono con lucida follia l’accelerazione tecnologica, accompagnano questo
movimento inarrestabile incrociando biotecnologia e ingegneria genetica, partecipano
al progressivo tecnologizzarsi e scientificizzarsi dell’opera d’arte. «Il ruolo del
demiurgo si è spostato: esso non appartiene più all’artista ma allo scienziato», dichiara
non a caso ORLAN, e ancora provocatoriamente: «l’avanguardia non è più nell’arte
ma nella genetica». La scienza assume un aspetto estetico ed appetibile nascondendo
problemi etici e dubbi morali agli sguardi indiscreti. Gli artisti reagiscono
collaborando coi tecnocrati, accedono ai domini protetti del sapere scientifico ponendo
dubbi leciti sui brevetti biologici e ribellandosi ai deliri di eugenetica. Emblematico di
queste ultime tendenze, il lavoro di Marta de Menezes che utilizza materiali biologici
alla stregua di nuovi medium artistici: DNA, proteine, cellule e microrganismi che
diventano lo strumento per esplorare nuove vie di rappresentazione e comunicazione.
In Natura? (2003) la de Menezes interviene sui meccanismi biologici delle farfalle,
sulle cui ali organiche, quindi apparentemente naturali, compaiono disegni progettati
da un artista che non appartengono al processo evolutivo delle farfalle. Il risultato sono
degli organismi unici che non esistono in natura. Eduardo Kac realizza in laboratorio
GFP Bunny (2000), un coniglio albino creato con una mutazione sintetica del gene
della fluorescenza “GFP” della medusa “Aequorea Victoria” che lo rende fluorescente
se esposto ad una particolare luce azzurrata. Bunny è uno degli esempi estremi di
questa singolare forma di espressione atta alla creazione di un essere vivente
complesso totalmente artificiale che pone inquietanti interrogativi all’incrocio tra
trasformazioni del vivente ad opera delle biotecnologie, dubbi etici e domini estetici. Il
collettivo australiano dei SymbioticA porta avanti un progetto artistico di sviluppo e di
ricerca focalizzato sull’ingegneria tessutale per realizzare in appositi laboratori
sculture di carne creata sinteticamente, le Poupées du Souci, realizzate partendo da
strutture ibride a base di polimeri biodegradabili e di cellule organiche con le quali
ricreare tessuto osseo, cartilagineo ed epidermico. Analogamente per questa ultima
parte sono state analizzate sia le occasioni espositive che le posizioni teoriche più
importanti. Queste le tracce dipanate di un discorso i cui esiti estremi, ancora in fieri e
in costante divenire, si è tentato in questa occasione, per la prima volta, di
sistematizzare. [a cura dell'autore]