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dc.contributor.authorViola, Eugenio
dc.date.accessioned2011-12-05T10:10:50Z
dc.date.available2011-12-05T10:10:50Z
dc.date.issued2010-07-29
dc.identifier.urihttp://hdl.handle.net/10556/222
dc.description2008 - 2009en_US
dc.description.abstractEsperienza artistica di confine, luogo di riflessione critica e di aperto dibattito filosofico e antropologico, il Post-Human rappresenta un oggetto teorico estremamente complesso, ricco di prospettive e di molteplici sviluppi. Una costellazione di pratiche e di proposte critiche che, maturata nell’ultimo decennio del Novecento, continua a segnare i percorsi dell’arte e della critica d’arte d’inizio secolo, ponendo questioni che coinvolgono, innanzitutto, le nozioni di identità e di corpo. In quest’ottica premessa ineliminabile è stata una disamina delle prime ricerche che nella seconda metà del secolo scorso hanno posto al centro del proprio interesse la corporeità, anticipando alcuni problemi sviluppati poi in maniera differente nella stagione del Post Human. Mi riferisco essenzialmente alla Body art e alle tesi riconducibili a Il corpo come linguaggio (Lea Vergine), dove per uno slittamento l’artista tramite l’auto-rappresentazione diviene «soggetto e oggetto dell’opera», secondo l'ormai celebre definizione di Willoughby Sharp. In particolare sono stati approfonditi i motivi di affinità e divergenza tra questa prima fase, ormai storicizzata, e la cosiddetta nuova ondata mutazionista che emerge a cavallo tra i due millenni. Nel primo capitolo si è tentato di dare al dibattito tutt’ora in corso sull’argomento un approccio trasversale e pluridisciplinare, analizzando metodologicamente posizioni tra di loro molto distanti e concentrando la ricerca su alcuni nodi fondamentali, come le questioni, tuttora in corso, tra tecnofobi e tecnofili; tra chi sostiene lo iato esistente tra Homo Faber e Homo Creator (Anders); tra i “transumanisti” fautori di un’antica volontà di potenza antropocentrica pronta a schiacciare qualsiasi alterità, espressione della punta più avanzata dei teorici della tecno-scienza tesa a superare l’“uomo limitato” consegnatoci dall’evoluzione, in opposizione ai nostalgici di una natura armonica e incontaminata che rivendicano il predominio di una mitica età felice, alla quale epoche e contesti storici hanno attribuito sfumature di significato e valenze estetico-simboliche diverse. Posizioni spesso antitetiche nelle quali si è tentata una - non facile - mediazione, come quella attuata da Roberto Marchesini, il quale sostiene che natura e cultura possano essere intesi solo strumentalmente in rapporto di opposizione, poiché nella storia evolutiva dell'uomo l'ibridazione con la tecnologia è quasi congenita, in quanto la specie umana si è sempre caratterizzata per una elevata capacità di rapportarsi con mondi ed esperienze lontane dalla propria, con gli animali prima ancora che con la tecnica. È questa capacità di apertura all'altro a “definire” l'uomo secondo Marchesini. Si deve pertanto accettare l’idea che l’essere umano è il risultato di una co-evoluzione che lo vede strutturalmente accoppiato agli strumenti tecnologici, all’interno di una complessa rete di feedback, negativi e positivi. Partendo da questi presupposti, il progetto di ricerca si è poi concentrato sulla progressiva erosione della linea di divisione tra biologico e tecnologico, da molti considerato in atto ma che tuttavia potrebbe essere inteso come lo sviluppo di un processo che ha condotto alla comparsa della specie umana e che trova la sua identità sul piano dell’evoluzione filogenetica proprio in quanto soggetto e oggetto di questa stessa erosione. Sulla scorta di queste posizioni teoriche, eterogenee e spesso contrastanti, si è passati ad analizzare alcuni esiti estremi di questa tendenza sotto il profilo artistico, cercando di contestualizzare alcuni fenomeni coevi, esaminati per exempla attraverso il lavoro di una serie di artisti, da Cindy Sherman a Matthew Barney, da Robert Gober a Paul Mc Carthy e alcuni fenomeni coevi, e mi riferisco all’esplosione della YBA (Young British Art), di cui alcuni esponenti (Damien Hirst, Chapman Brothers, Marc Quinn), presentano non poche tangenze con la temperie Post-Human. Si è cercato di affrontare per tipologie le poetiche degli artisti afferenti questa nuova sensibilità, analizzando ambiti e territori di un movimento di pensiero destinato a diventare una tendenza eterogenea più che uno stile o un movimento. Un particolare modo di sentire in linea con una precisa “corrente di gusto” che attraversa i processi di transculturazione e di ibridazione in atto. Tra le molteplici esperienze e figure affrontate, particolare importanza è stata data allo studio della figura e dell’opera di ORLAN, artista che funge da trait d’union tra i due momenti della ricerca. La ricostruzione filologica di tutte le fasi della complessa carriera dell’artista e il recupero di una serie di materiali inediti - e per la prima volta sistematizzati - ha segnato un momento fondamentale del progetto di ricerca. Si è in questo modo completato uno studio iniziato nel 1999-2001 con ORLAN: Art Corporel, Art Charnel, tesi di laurea dello scrivente incentrata sui due momenti fondamentali dell’attività dell’artista, esemplificati fin dal titolo di questo primo lavoro che ha costituito la base teorica delle ricerche future. Le operazioni chirurgiche performance, la parte più famosa, contestata e travisata ad un tempo, del lavoro di ORLAN, sulle quali molto si è detto e scritto, sono state definitivamente restituite alle reali intenzioni dell’artista, atte a trovare un’originale e provocatoria “altra via” alla crisi della performance, realizzata trasformando la sala operatoria in un atelier dove produrre opere d’arte, inaugurando in questo modo il paradigma mutazionista dell’arte contemporanea che sancisce il progressivo ritorno alle tematiche corporali in un’accezione naturalmente molto diversa da quella in auge alla fine degli anni Sessanta, meno esistenziale e politicamente impegnata, strettamente correlata all’assillo delle nuove tecnologie e delle biotecnologie. Una nuova tendenza nella quale l’artista francese si rivela ancora una volta un’apripista, prima ancora della grande mostra itinerante “Post Human” (1992-93), organizzata da Jeffrey Deitch, qui ugualmente analizzata, sia sotto l'aspetto teorico, asciutto e ben argomentato, che sotto quello, meno convincente, della scrittura espositiva. La disamina del lavoro di ORLAN chiude il secondo capitolo, focalizzato sullo sconfinamento in una sensibilità riconducibile a quella che Mario Perniola definisce realismo psicotico, caratterizzata da nuove forme di soggettività che emergono dall’interazione del corpo con le nuove tecnologie e dall’ibridazione col potenziale della biogenetica; da una promiscuità ontologica (Marchesini) che ridisegna, all’inizio degli anni Novanta, gli scenari delle poetiche legate al corpo, ormai oggetto di infinite combinazioni tra umano e non umano, artificiale e organico, reale e virtuale e che circoscrivono gli scenari, per certi aspetti inquietanti, del Post-Human. Oltre la disamina degli artisti e delle occasioni espositive, oggetto del secondo capitolo della mia ricerca, un capitolo a parte è stato dedicato alle posizioni della critica in Italia, incentrato sullo iato esistente tra i teorici della Body Art storica e i nuovi teorici della mutazione, esaminando anche la singolare esperienza di una rivista, “Virus”, animata dal Francesca Alfano Miglietti, che per pochi, proficui anni, ha dato conto di queste vicende, con uno sguardo trasversale, dall’arte alla moda, dal cinema alla musica. L'ultimo capitolo del lavoro si è incentrata sull’evoluzione, in parte ancora futuribile, del Post-Human, e mi riferisco essenzialmente alla cosiddetta Art Biotech, ancora poco studiata, che porta uno scarto ulteriore al tema della mutazione, passando dall’acorporalità del virtuale (Virilio) ad una brusca “ri-materializzazione” dell'oggetto d'arte, segnando il passaggio, gravido di conseguenze, dalla net-art alla wet-art. Una buona parte delle ricerche afferenti quest’ultima parte del lavoro sono state svolte negli Stati Uniti, dove ho reperito una serie di testi non ancora pubblicati in Italia, che trattano questi fenomeni, in Gran Bretagna e in Francia. Particolare cura è stata data allo studio dei rapporti tortuosi intercorrenti tra scienza ed arte, che per una serie di teorici (Kac, Hauser) sembrano andare insieme verso il futuro, ma non in un atteggiamento di appassionata connivenza, come ai tempi di Leonardo, prototipo universale dell’artista-scienziato. Gli artisti, fedeli sismografi del proprio tempo, recepiscono con lucida follia l’accelerazione tecnologica, accompagnano questo movimento inarrestabile incrociando biotecnologia e ingegneria genetica, partecipano al progressivo tecnologizzarsi e scientificizzarsi dell’opera d’arte. «Il ruolo del demiurgo si è spostato: esso non appartiene più all’artista ma allo scienziato», dichiara non a caso ORLAN, e ancora provocatoriamente: «l’avanguardia non è più nell’arte ma nella genetica». La scienza assume un aspetto estetico ed appetibile nascondendo problemi etici e dubbi morali agli sguardi indiscreti. Gli artisti reagiscono collaborando coi tecnocrati, accedono ai domini protetti del sapere scientifico ponendo dubbi leciti sui brevetti biologici e ribellandosi ai deliri di eugenetica. Emblematico di queste ultime tendenze, il lavoro di Marta de Menezes che utilizza materiali biologici alla stregua di nuovi medium artistici: DNA, proteine, cellule e microrganismi che diventano lo strumento per esplorare nuove vie di rappresentazione e comunicazione. In Natura? (2003) la de Menezes interviene sui meccanismi biologici delle farfalle, sulle cui ali organiche, quindi apparentemente naturali, compaiono disegni progettati da un artista che non appartengono al processo evolutivo delle farfalle. Il risultato sono degli organismi unici che non esistono in natura. Eduardo Kac realizza in laboratorio GFP Bunny (2000), un coniglio albino creato con una mutazione sintetica del gene della fluorescenza “GFP” della medusa “Aequorea Victoria” che lo rende fluorescente se esposto ad una particolare luce azzurrata. Bunny è uno degli esempi estremi di questa singolare forma di espressione atta alla creazione di un essere vivente complesso totalmente artificiale che pone inquietanti interrogativi all’incrocio tra trasformazioni del vivente ad opera delle biotecnologie, dubbi etici e domini estetici. Il collettivo australiano dei SymbioticA porta avanti un progetto artistico di sviluppo e di ricerca focalizzato sull’ingegneria tessutale per realizzare in appositi laboratori sculture di carne creata sinteticamente, le Poupées du Souci, realizzate partendo da strutture ibride a base di polimeri biodegradabili e di cellule organiche con le quali ricreare tessuto osseo, cartilagineo ed epidermico. Analogamente per questa ultima parte sono state analizzate sia le occasioni espositive che le posizioni teoriche più importanti. Queste le tracce dipanate di un discorso i cui esiti estremi, ancora in fieri e in costante divenire, si è tentato in questa occasione, per la prima volta, di sistematizzare. [a cura dell'autore]en_US
dc.language.isoiten_US
dc.subjectArteen_US
dc.subjectScienzeen_US
dc.subjectCorporeitàen_US
dc.subjectBody arten_US
dc.subjectOrlanen_US
dc.titlePost Human. Esperienze e questioni di critica d’arteen_US
dc.typeDoctoral Thesisen_US
dc.subject.miurL-ART/04 MUSEOLOGIA E CRITICA ARTISTICA E DEL RESTAUROen_US
dc.contributor.coordinatorePontrandolfo, Angelaen_US
dc.description.cicloVIII n.s.en_US
dc.contributor.tutorDe Rosa, Mariaen_US
dc.identifier.DipartimentoBeni Culturalien_US
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