dc.description.abstract | Il controllo sociale è stato, e continua a essere, uno degli argomenti più dibattuti
nell’intero panorama della scienze sociali. Ancora oggi ci si chiede quali possano
essere gli oggetti del controllo, in che modo poterli individuare, etichettare e,
soprattutto, tenere ai margini. Il problema è che, nella maggioranza dei casi, non
esiste una visione processuale e storica della realtà in questione: «I sociologi pensano al “controllo sociale” come a un insieme di strumenti o di misure intenzionali
elaborate per correggere, reintegrare, contenere o frenare le minoranze (e) questo
modo di pensare tende a concepire la società in generale come se contenesse due zone: una sfera centrale di soggetti più o meno autonomi, autogovernati,“responsabili” (…);e una periferia di devianti sotto sorveglianza e controllo, il cui accesso alla sfera centrale è sorvegliato da diversi guardiani (gate keepers) e le cui identità sono segnate, almeno in parte, dalla loro etichetta di “devianti”» [Donnelly,
2000, p. 91]. Raramente viene portato avanti un discorso esauriente sulla natura,l’evoluzione,gli obiettivi dei processi di controllo sociale, anche perché è molto più immediato, oltre che riduttivo, considerarli come una semplice risposta al crimine, sforzandosi di costruire, in tal modo, una teoria generale del comportamento deviante, vale a dire «un insieme di proposizioni applicabile a tutte le molteplici varietà empiriche della
devianza, (…) capace di render conto non soltanto dei fenomeni di deviazione
individuandone le motivazioni, le correlate e i meccanismi che li producono in
rapporto alle varie situazioni normative e ai loro apparati di controllo, ma anche delle
forme particolari che essi assumono in questo o quel contesto socio-culturale»
[Cohen, 1971, p. 5].
Il problema non consiste soltanto nei limiti di una (presunta) teoria generale,
onnicomprensiva della realtà in questione, quanto piuttosto nel fatto che la devianza
è ridotta a una semplice deviazione, vale a dire una «non conformità a ogni modalità
normativizzata, sia essa una legge, oppure una convenzione sociale più o meno
consolidata» [Ibid., p. 6]. L’idea di fondo è legata alla capacità, da parte delle norme,
di fornire una sottotraccia per ogni azione umana e la deviazione, almeno
potenzialmente, rappresenta un pericolo per l’organizzazione sociale. La parola chiave, che da sempre ha evidenziato gli aspetti più salienti di teorie tanto generiche quanto empiricamente discutibili, è “classificazione”, alla quale si
riferisce gran parte del vocabolario riconosciuto e consolidato del discorso sul
controllo. Nel suo significato strategico, il termine rimanda all’idea che a tipi diversi di trasgressori (devianti) dovrebbero corrispondere trattamenti differenti: «Gli psicopatici dovrebbero essere trattati separatamente e differentemente dai prigionieri;
i criminali incalliti differentemente da trasgressori minorenni; il povero fisicamente
sano differentemente dall’anziano malfermo» .Si tratta di un vero e proprio slogan del controllo e delle
politiche pubbliche, capace di inscriversi nella «divisione funzionale del lavoro,
poiché per la logica della classificazione (trattamenti diversi per categorie diverse) Il controllo sociale è stato, e continua a essere, uno degli argomenti più dibattuti
nell’intero panorama della scienze sociali. Ancora oggi ci si chiede quali possano
essere gli oggetti del controllo, in che modo poterli individuare, etichettare e,
soprattutto, tenere ai margini. Il problema è che, nella maggioranza dei casi, non
esiste una visione processuale e storica della realtà in questione: «I sociologi pensano
al “controllo sociale” come a un insieme di strumenti o di misure intenzionali
elaborate per correggere, reintegrare, contenere o frenare le minoranze (e) questo
modo di pensare tende a concepire la società in generale come se contenesse due
zone: una sfera centrale di soggetti più o meno autonomi, autogovernati,
“responsabili” (…); e una periferia di devianti sotto sorveglianza e controllo, il cui
accesso alla sfera centrale è sorvegliato da diversi guardiani (gate keepers) e le cui
identità sono segnate, almeno in parte, dalla loro etichetta di “devianti”» [Donnelly,
2000, p. 91].
Raramente viene portato avanti un discorso esauriente sulla natura, l’evoluzione,
gli obiettivi dei processi di controllo sociale, anche perché è molto più immediato,
oltre che riduttivo, considerarli come una semplice risposta al crimine, sforzandosi di
costruire, in tal modo, una teoria generale del comportamento deviante, vale a dire
«un insieme di proposizioni applicabile a tutte le molteplici varietà empiriche della
devianza, (…) capace di render conto non soltanto dei fenomeni di deviazione
individuandone le motivazioni, le correlate e i meccanismi che li producono in
rapporto alle varie situazioni normative e ai loro apparati di controllo, ma anche delle
forme particolari che essi assumono in questo o quel contesto socio-culturale»
[Cohen, 1971, p. 5].
Il problema non consiste soltanto nei limiti di una (presunta) teoria generale,
onnicomprensiva della realtà in questione, quanto piuttosto nel fatto che la devianza
è ridotta a una semplice deviazione, vale a dire una «non conformità a ogni modalità
normativizzata, sia essa una legge, oppure una convenzione sociale più o meno
consolidata» [Ibid., p. 6]. L’idea di fondo è legata alla capacità, da parte delle norme,
di fornire una sottotraccia per ogni azione umana e la deviazione, almeno
potenzialmente, rappresenta un pericolo per l’organizzazione sociale. Coloro che
5
abbracciano questa tesi sono convinti che ogni tipo di società1 presenti delle regole,
delle norme, dei modelli di comportamento la cui violazione suscita disapprovazione,
ira o indignazione. Non solo: ci si illude che per poter spiegare il comportamento
umano basti conoscere «le circostanze che portano ad osservare e a non osservare le
norme» [Ivi], senza rendersi conto che una semplice classificazione dicotomica,
lungi dal permettere una comprensione del comportamento umano, non costruisce
una base per una teoria della devianza, ma fa da sfondo a una semplice teoria della
conformità. Ne consegue una visione quanto mai scarna del controllo sociale,
considerato come un semplice insieme di strutture in grado di impedire o ridurre il
crimine, una «qualche cosa che impedisca la deviazione, qualunque sia questa
“cosa”: la prevenzione, le punizioni, la riforma, la giustizia, la riparazione, la
compensazione, l’innalzamento morale della vittima» [Ibid., p. 74].
La parola chiave, che da sempre ha evidenziato gli aspetti più salienti di teorie
tanto generiche quanto empiricamente discutibili, è “classificazione”, alla quale si
riferisce gran parte del vocabolario riconosciuto e consolidato del discorso sul
controllo2. Nel suo significato strategico, il termine rimanda all’idea che a tipi diversi
di trasgressori (devianti) dovrebbero corrispondere trattamenti differenti: «Gli
psicopatici dovrebbero essere trattati separatamente e differentemente dai prigionieri;
i criminali incalliti differentemente da trasgressori minorenni; il povero fisicamente
sano differentemente dall’anziano malfermo» [Ivi]. È stata questa la base razionale
dell’internamento separato, a cui ha fatto seguito la costituzione di istituzioni
appropriate e specifiche, ed è stata allo stesso modo la base razionale «per separare e
suddividere gli spazi interni di queste istituzioni (gli asili, le prigioni, gli ospedali, le
case del lavoro) per l’organizzazione di differenti sottocategorie fra gli internati: al
limite logico, ciascuna cella o letto avrebbe potuto isolare il suo specifico caso
individualizzato, il suo specifico sottotipo» [Ivi].
Sarebbe sbagliato pensare di essere di fronte a una semplice categoria teoricodisciplinare.
Si tratta, infatti, anche di un vero e proprio slogan del controllo e delle
politiche pubbliche, capace di inscriversi nella «divisione funzionale del lavoro,
poiché per la logica della classificazione (trattamenti diversi per categorie diverse) ci devono essere esperti capaci di discriminare e specialisti disposti a offrire una varietà di trattamenti». | en_US |